Accordi di Parigi sul clima: quali paesi li stanno rispettando?

Rita Annunziata
4.12.2020
Tempo di lettura: 3'
Per rispettare gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici e contenere l'aumento medio della temperatura mondiale a 1,5°C, i governi globali dovrebbero ridurre la produzione di energia da fonti fossili di circa il 6% all'anno tra il 2020 e il 2030. Ma si stanno davvero incamminando verso questa direzione?

Nei prossimi dieci anni la produzione globale di carbone, petrolio e gas dovrebbe calare ogni anno rispettivamente dell'11, del 4 e del 3% per essere coerente con l'obiettivo di contenere l'aumento medio della temperatura mondiale a 1,5°C

Al mese di novembre 2020, i governi del G20 hanno già impegnato 233 miliardi di dollari in attività a sostegno della produzione e del consumo di combustibili fossili

Dispiegati, invece, 146 miliardi di dollari per le energie rinnovabili, l'efficienza energetica e le alternative a basse emissioni di carbonio

Per limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguire tale azione per contenere l'aumento a 1,5°C, come stabilito con il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici adottato nel dicembre del 2015 a Parigi, i governi globali dovrebbero ridurre la produzione di energia da fonti fossili di circa il 6% all'anno tra il 2020 e il 2030. Ma ancora molto resta da fare. Contrariamente alle attese, diversi paesi prevedono di produrre rispettivamente il 50 e il 120% di combustibili fossili in più nei prossimi dieci anni di quanto necessario a rispettare i due obiettivi.
Secondo l'analisi The production gap dell'Unep, il programma delle Nazioni Unite per l'ambiente, tra il 2020 e il 2030 la produzione globale di carbone, petrolio e gas dovrebbe infatti calare ogni anno rispettivamente dell'11%, del 4% e del 3% per essere coerente con il fine di contenere l'aumento medio della temperatura mondiale a 1,5°C. Ma sebbene la pandemia abbia portato a una caduta della produzione nel breve termine rispettivamente dell'8, del 7 e del 3% rispetto al 2019, nei prossimi dieci anni è atteso un aumento medio annuo del 2% per ognuna delle variabili. Stando ai dati relativi al mese di novembre 2020, i governi del G20 hanno già impegnato 233 miliardi di dollari in attività a sostegno della produzione e del consumo di combustibili fossili (come le compagnie aeree e le case automobilistiche), contro i 146 miliardi di dollari per le energie rinnovabili, l'efficienza energetica e le alternative a basse emissioni di carbonio (come le piste ciclabili e pedonali).

In generale, spiegano i ricercatori, le risposte dei governi alla crisi hanno finito per confermare e intensificare i modelli già esistenti prima dello scoppio della pandemia: le giurisdizioni che già sovvenzionavano pesantemente la produzione di combustibili fossili hanno incrementato questo sostegno, mentre quelle più inclini a una transizione verso l'energia pulita stanno sfruttando i pacchetti di stimoli per accelerare questo cambiamento. Sfortunatamente, scrive l'Unep, “la maggior parte dei principali paesi produttori del mondo si trova nella prima categoria”.
Per esempio, l'Argentina ha tagliato la tassa sull'esportazione dei combustibili fossili; lo Stato australiano del Queensland ha congelato le tasse e le spese per l'esportazione di carbone e gas; la provincia canadese della Columbia britannica ha congelato le tasse per gli oleodotti; il Messico ha annunciato un piano per ridurre la tassa sull'estrazione del petrolio, fornendo tre miliardi di dollari di stimoli fiscali a Pemex (la compagnia petrolifera nazionale); la Norvegia ha approvato un pacchetto di agevolazioni fiscali temporanee per l'industria petrolchimica dal valore di 10,8 miliardi di dollari; e la Bank of England ha dispiegato circa 1,3 miliardi di dollari a sostegno di due società petrolifere (Schlumberger e Baker Hughes). Ma rientrano nell'elenco anche la provincia canadese dell'Alberta, l'Estonia, l'India, la Russia e gli Stati Uniti.

Sul versante opposto, invece, si posizionano alcuni paesi che hanno introdotto riforme per contenere il consumo di combustibili fossili (come l'Argentina, il Canada, la Cina, l'India e l'Indonesia), divieti su nuove attività estrattive (Costa Rica, Francia, Nuova Zelanda) e restrizioni ai finanziamenti pubblici (la maggior parte degli Stati membri dell'Ocse). Inoltre, aggiungono i ricercatori, alcuni importanti paesi produttori di combustibili fossili hanno iniziato a offrire supporto alle tecnologie che potrebbero svolgere un ruolo chiave in un futuro a basse emissioni di carbonio, come i veicoli elettrici, l'energia rinnovabile e l'idrogeno (vedi l'Australia, la Cina e la Norvegia).

“I devastanti incendi boschivi, le inondazioni e la siccità di quest'anno ma anche altri eventi meteorologici estremi in corso servono come potente promemoria del motivo per cui dobbiamo riuscire ad affrontare la crisi climatica – commenta Inger Andersen, direttore esecutivo dell'Unep – Mentre cerchiamo di riavviare le economie a seguito dello stop legato alla pandemia, investire in energia e infrastrutture a basse emissioni di carbonio avrà un effetto positivo anche sull'occupazione, la salute e il clima. I governi devono cogliere l'opportunità di portare i loro sistemi energetici il più lontano possibile dai combustibili fossili e di costruire un'economia più giusta, sostenibile e resiliente”.
Giornalista professionista, è laureata in Politiche europee e internazionali. Precedentemente redattrice televisiva per Class Editori e ricercatrice per il Centro di Ricerca “Res Incorrupta” dell’Università Suor Orsola Benincasa. Si occupa di finanza al femminile, sostenibilità e imprese.
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