Le mostre d’arte sotto l’ombrellone: c’è chi dice no

Luca Giacopuzzi
Luca Giacopuzzi
12.7.2022
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Organizzare mostre “pret-a-porter”, rivolte a un pubblico di vacanzieri, è ormai un'abitudine rodata in tutta la Penisola. Ecco perché si tratterebbe di un rito deleterio

Riaffiorano, come ogni estate. Da nord a sud, da est a ovest: democraticamente. Il format è rodato e la ricetta è semplice: organizzare mostre “pret-a-porter”, rivolte a un pubblico di vacanzieri. 

Si propongono soprattutto i movimenti artistici più noti e i maestri mediaticamente più efficaci, perché anche il titolo deve strizzare l’occhio ad autori iperpop; senza contare che, per gli organizzatori dotati di ancor meno fantasia, un rassicurante “da … a…” (valigia da riempire con i souvenir più disparati) va bene comunque. Mostre concepite in fretta e realizzate ancor più velocemente. Ogni estate si replica lo stesso film. Assecondando una logica festivaliera, molti curatori preferiscono riproporre al pubblico la stessa melodia, limitandosi a lievi modifiche allo spartito. E poco importa se le rassegne espongono opere mediocri (peraltro spesso ottenute in cambio di fee elevate) e radunate senza alcuna attenzione critico-filologica: conta il nome, non la qualità. Serve, e basta, il brand. Sono mostre in serie, urlate: fondate sull’ostentazione di qualche “icona” - il più delle volte, peraltro, di dimensioni contenute e di non eccelsa fattura (un arazzino di Boetti, un piccolo taglio su carta di Fontana o un disegnino di Picasso sono perfetti…) - da esibire come trofeo, per intercettare (e assecondare) un diffuso desiderio di intrattenimento pseudocolto. 

Ci si serve, insomma, delle opere, mentre una mostra dovrebbe fare esattamente il contrario, ovvero essere essa stessa al servizio delle opere. E ci si serve, in fondo, anche degli artisti. Picasso, per esempio, lungi dell’essere concepito come il genio, icona dell’avanguardia, che è stato è ormai anche un prodotto (facile conferma la si ha ricordando che nel 1999 la Citroën ha concluso un contratto con la Picasso Administration per una versione di una nuova vettura: la Xsara “Picasso”, per l’appunto). Benvenuti nel fast food del mondo dell’arte: cibo povero, da trangugiare e da dimenticare in fretta. Ma questo è, specie nel periodo estivo, lo spettacolo che in Italia il mondo della cultura, spesso e volentieri, offre. Nel nostro Paese, infatti, si sta sempre più radicalizzando la logica delle mostre ad effetto; poco conta se aggiungono, o meno, qualcosa alla conoscenza di un artista o di un movimento: devono essere lunapark in grado di dare a chi li frequenta l’illusione di sapere qualcosa di più sull’arte, senza alcuno sforzo (perché il mondo è social, e tutto corre veloce). 

È il decadimento della funzione civile delle mostre, che, invece, dovrebbero avere una centralità nelle strategie di promozione dello sviluppo della cultura, sancito anche dall’art. 9 della Costituzione. Chi i colpevoli? Tanti, troppi. Lo spettro è ampio. Si va da amministratori pubblici che, nell’assecondare un’iniziativa culturale, spesso affidano con disinvoltura ad improvvisate società commerciali non solo i servizi collaterali ad una mostra (biglietteria, bookshop, caffetteria, ecc.), ma anche compiti strettamente scientifici, a organizzatori che, per inseguire guadagni al botteghino, mirano a successi di facciata, decretati unicamente dal numero di visitatori. Una logica “da auditel” (lo strumento che registra solo il numero degli spettatori, e non anche la loro soddisfazione), che è la peggior cartina tornasole possibile per cogliere la riuscita, o meno, di una mostra. Georges-Henri Rivière, il fondatore, nel 1937, del Musée des Arts et Traditions populaires dì Parigi ricordava che “il successo di un museo non si valuta in base al numero dei visitatori che vi affluiscono, ma al numero dei visitatori ai quali ha insegnato qualcosa”, sentenziando che un museo che non ha questi connotati è solo una sorta di “mattatoio culturale”. 

Anche i curatori spesso sono complici. Non è infrequente, infatti, che dotino la mostra di apparati didascalici criptici e che partoriscano cataloghi (scritti, per di più, in gergo intellettualistico) del tutto inadatti a far comprendere ciò che il visitatore medio si attende: il significato delle opere e il contesto di riferimento. Ma non è tutto. Muovendo dall’idea (abusata) che “tutta l’arte è contemporanea” i curatori spesso decontestualizzano le opere dalla loro genesi culturale, per un dialogo - spesso kitsch - tra lavori che nulla hanno in comune, nemmeno un rimando culturale. Quale sia il senso di simili accostamenti non è dato né capire né sapere, perché quasi sempre le opere sono l’una accanto all’altra senza spiegazione di sorta. Viene da domandarsi cosa capirà della storia dell’arte il visitatore, abbandonato a se stesso e sedotto, al più, da scenografie ad effetto, di libera interpretazione. 

Ma una mostra deve solo spettacolarizzare o anche informare e formare? Di fronte a una simile domanda molti addetti ai lavori organizzerebbero e risponderebbero che si tratta di preoccupazioni elitarie, e che ogni evento - riuscito più o meno bene - è apprezzabile, perché può, da solo, far germogliare nel pubblico il seme della cultura. Un argomento, questo, ascrivibile alla categoria del “razzismo culturale”, perché presume che al popolo bue tutto possa essere propinato. Che fare, allora? Come reagire ad uno scempio del genere? Umberto Eco suggeriva di tornare “alla lezione di Vasari”, e raccontare come una certa opera è nata, per quali fini, da che mano, in quale società, ecc.; il tutto, come amava ripetere, per “docere delectando”, ossia per educare all’arte in modo divertente. Un esercizio troppo colto e, pur se lodevole, comunque non in grado di risolvere il problema nel breve. Come (re)agire, dunque, oggi, in questa assolata estate? Secondo un paradigma molto semplice: boicottando le mostre “mordi e fuggi”; per far voltare pagina, una volta per tutte.

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Classe 1972, Luca Giacopuzzi, collezionista, è stato uno dei primi avvocati italiani ad occuparsi di diritto dell’arte, tematica che tuttora segue in prima persona unitamente al diritto d’impresa, core dello studio legale. Pubblica con sistematicità propri contributi su temi oggetto di dibattito scientifico.

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