Liquidità: quando chiudere i rubinetti alle aziende “zombie”

Alcune imprese hanno patito in ragione della specifica pandemia, come la ristorazione. Altre, invece, come quelle attive nell’intermediazione commerciale o nei servizi online, sono state accelerate dalla crisi. E sembrano attrarre anche più investitori
Dossena: “Progressivamente coloro che dispongono capitali da investire e allocare incominciano a vedere nel venture capital un’alternativa importante che può portare valore e generare valore. E il cui rischio è anche più accettabile”
La pandemia ha avuto un effetto enorme su diversi settori, ma devo dire che è stata allo stesso tempo un veicolo di accelerazione di aspettative e iniziative, soprattutto nel venture capital. Le crisi, tradizionalmente, accelerano di fatto tendenze latenti. Molte imprese anche abbastanza consolidate, il cui modello di business mancava di qualche componente importante, hanno patito molto. Poi ci sono state quelle che hanno patito in ragione della specifica pandemia, come la ristorazione. Altre, invece, come quelle attive nell'intermediazione commerciale o nei servizi online, sono state accelerate dalla crisi e appartengono a una qualche sorta di megatrend. Sono queste quelle che emergono con più rilevanza, che generano più valore e sulle quali si investe più volentieri perché non sono solo portatrici del futuro ma sono in coerenza col futuro. Credo che il mondo della finanza questo distinguo importante lo abbia fatto.
Su quali strumenti possono far leva per sopperire alla sete di liquidità?
Fino a oggi sono stati dati finanziamenti in rapporto alla dinamica del fatturato, i cosiddetti “finanziamenti covid”. Prestiti finalizzati a sopperire a una mancanza di cassa effettiva, concessi sulla base di performance oggettive e valutabili. Perciò tutte quelle che avevano bilanci ma non avevano possibilità di esprimere la loro redditività, non hanno potuto ottenerli perché non avevano la materia prima da presentare. Altre imprese li hanno ottenuti e hanno fatto fronte ai flussi di cassa, allungato i tempi di pagamento e consolidato un po' le loro strutture finanziarie. In molte ci sono state immissioni di capitali. Ma in questo momento c'è anche un altro fattore da considerare. Sempre più operatori privati come possiamo essere noi, private equity, private debt, stanno sopperendo in qualche modo all'azione del lending diretto da parte delle banche nel finanziare le aziende. Certo, valutando i parametri fondamentali, considerando meno le garanzie reali rispetto al modello di business e rispetto alle garanzie di tipologie di mercato e prodotto. Ma forse è anche un modo più sano di allocare denaro nel sistema, sulla base delle effettive prospettive di business. Stanno lavorando molto anche i fondi di turnaround, ma anche qui sulla base di una selezione. Invece le imprese con modelli di business vecchi, con mercati che non si sono evoluti e in situazioni di crisi, sono esplose. E faticano oggettivamente a trovare finanziamenti. La vera domanda è: è utile comunque sostenere queste imprese?
Le chiediamo, allora: perché tenere in vita le aziende “zombie”?
Qui il discorso diventa politico, perché in un contesto economico di allocazione delle risorse dovresti metterle dove sono più in grado di generare valore, non solo per gli azionisti ma per l'insieme degli stakeholder, dei dipendenti, della comunità, delle prospettive stesse dell'impresa. Dire “lo zombie è già morto” e considerare l'ipotesi liquidatoria avviene quando la capacità di generare valore aggiunto con una revisione del modello di business diventa inferiore al valore intrinseco contenuto negli asset fisici che l'azienda può realizzare nell'interesse dei creditori. Qual è la ragione che ci deve portare a dire “stop loss”? Sempre più un'analisi di contesto e del complesso degli stakeholder. Ove vi siano valori ancorché non finanziari connessi all'esercizio dell'impresa, si potrà vedere se si può sanare, ove non ve ne siano è bene accompagnare l'operatore fuori dal mercato. Perché spesso le aziende che si trovano di fronte a queste difficoltà che non si risolvono in una revisione del modello di business sono propense ad adottare strumenti competitivi scorretti, iniziano a non versare l'Iva, a imporre prezzi sottocosto, generando un disvalore invece che un valore per il settore.
In che direzione sta andando il mercato italiano del venture capital?
Il venture capital è un settore che sta attirando moltissimo in questo momento. Progressivamente coloro che dispongono capitali da investire e allocare incominciano a vedere nel venture capital un'alternativa importante che può portare valore e generare valore, il cui rischio è anche più accettabile. Continua a essere più rischioso, ma l'assunzione di questo rischio diventa progressivamente un fattore più compreso e reputato più sostenibile da parte di un numero crescente di operatori.
A metà febbraio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto attuativo del decreto rilancio che ha reso operative le detrazioni fiscali al 50% per gli investimenti in startup e pmi innovative. Questo ha in qualche modo inciso sul mercato del venture capital?
Non è un'informazione così diffusa ma sicuramente è una leva importantissima. È uno strumento che si sta esprimendo ma che si esprimerà sempre di più. Efficace, a mio parere, e da favorire.