Il made in italy che resiste alla morsa Usa-Cina

Rita Annunziata
23.10.2020
Tempo di lettura: 3'
Abbigliamento, arredo e food sono più vulnerabili all'inasprimento dei dazi. Ma l'onda green sostenuta dai dem potrebbe spingere il made in Italy di fascia alta. Secondo l'Ice, i prodotti oggetto delle tensioni commerciali tra i due colossi sono, in ogni caso, scarsamente sostituibili con quelli della Penisola

Gli effetti della guerra commerciale sulle imprese italiane sono ancora limitati. Ma dallo scontro Trump-Biden del prossimo autunno potrebbero emergere nuove tensioni e opportunità

Nel 2019 l'amministrazione repubblicana impose l'innalzamento dei dazi dal 10 al 25% su 200 miliardi di dollari di merci importate dalla Cina

Le nostre aziende potrebbero rispondere alla crescente domanda nei settori della moda, del design ma anche dei prodotti ad alto contenuto tecnologico e specialistico

Fioriva la primavera del 2019 quando l'amministrazione Trump impose l'innalzamento dei dazi dal 10 al 25 % su 200 miliardi di dollari di merci importate dalla Cina, toccando l'apice della guerra commerciale. Bisognerà attendere l'inizio del 2020 per assistere a un primo passo verso la normalizzazione dei rapporti tra le due superpotenze, quando il presidente americano ha annunciato la firma della “fase uno” dell'accordo con la terra del Dragone. Una sorta di tregua in attesa della “fase due”, considerata dai ricercatori dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) la “vera prova del nove di questa détente commerciale”. In questo contesto di tensioni, tuttavia, le imprese italiane hanno assunto in gran parte il ruolo di spettatrici. Stando agli esperti, gli effetti della disputa in corso sul nostro tessuto imprenditoriale sono ancora limitati ma le elezioni americane di novembre potrebbero aprire per loro un nuovo capitolo di tensioni. E opportunità.
Oggetto dei negoziati sono infatti prodotti manufatti, prodotti agroalimentari e prodotti energetici per i quali, secondo Gianpaolo Bruno, direttore dell'Istituto nazionale per il commercio estero (Ice) di Pechino, “esiste un grado relativamente ridotto di sostituzione con prodotti italiani potenzialmente succedanei”. Tuttavia, aggiunge, esistono margini per alcuni effetti di “diversione selettiva”, in cui le imprese italiane potrebbero inserirsi quali fornitori alternativi nei confronti di entrambi i paesi, anche se si tratta di fenomeni che comportano periodi di assestamento relativamente lunghi e variabili.

Sulla stessa linea d'onda anche Antonino Laspina, direttore di Ice New York, secondo il quale i prodotti oggetto della contrapposizione tra i due paesi sono scarsamente sostituibili con quelli made in Italy e il riassestamento delle catene globali del valore avviene di solito su una scala temporale non immediata. Tuttavia, le possibili conseguenze della trade diversion “lasciano la possibilità di ipotizzare segmenti di opportunità per le nostre aziende, in grado di rispondere a esigenze manifatturiere con soluzioni tecnologiche e qualitative molto competitive che possono anche incontrare con successo i trend che stanno disegnando una nuova fisionomia della domanda in settori quali la moda, il design, ma anche prodotti ad alto contenuto tecnologico e specialistico”. Qualora, inoltre, si faccia sempre più strada una cultura del green, sostenuta con forza da Joe Biden, “è lecito pensare che i beni cinesi possano, anche a seguito dei dazi, essere sostituiti con prodotti italiani nelle fasce più alte dei consumatori statunitensi”, spiega Laspina.
Ma le imprese italiane, con un'innata vocazione all'export, nei prossimi mesi potrebbero anche trovarsi sempre più strette in un'incudine. Secondo Stefano Caselli, prorettore per gli affari internazionali dell'Università Bocconi, Stati Uniti e Cina stanno obbligando di fatto i loro partner storici o i nuovi partner a schierarsi e l'Italia, in particolare, non si troverebbe in una posizione facile. Oltre a far parte della Nato, infatti, è un partner commerciale storico degli Stati Uniti ma gode anche di aziende con un forte orientamento all'esportazione verso i paesi asiatici. “In questo momento - spiega Caselli - è chiaro che le imprese italiane stiano traendo vantaggio dalla grande ondata di liquidità immessa nel sistema per la fase post-covid, quindi non stanno pagando il conto della guerra commerciale. Il mio timore è che a un certo punto dovranno prendere una decisione, tra il fare più export con la Cina o con il Nord America, ma non vedo ancora una resa dei conti finale”.

Considerando poi l'appuntamento di quest'autunno, si aprono due scenari possibili. Tenendo conto delle dichiarazioni rese nel corso della campagna elettorale dai due leader in corsa per la Casa Bianca, secondo Caselli un'eventuale vittoria di Biden risulta essere più vicina a una logica di libero scambio e alle raccomandazioni della World trade organization, l'organizzazione mondiale del commercio. Una situazione da cui le imprese italiane potrebbero trarre un vantaggio, in particolare quelle con una forte vocazione all'export. “Nella logica di una vittoria di Trump, invece, salvo sorprese cui il presidente americano ci ha abituato negli ultimi quattro anni, mi aspetto uno scenario un po' meno favorevole al libero commercio mondiale, vale a dire una presidenza americana rafforzata e una logica di scontro più forte con la Cina”, continua Caselli.

In questo contesto, di conseguenza, l'inasprimento dei dazi e delle barriere commerciali potrebbe incidere in modo particolare sui settori più “made in Italy” ed “export-oriented”, tra cui abbigliamento, arredo, food e winery. Al contrario, l'impatto sui settori strategici come la difesa, i trasporti e le telecomunicazioni, “è un po' più difficile da definire perché, giocando la partita con negoziazioni paese-paese, dipende dagli accordi strategici stipulati con gli Stati Uniti”, aggiunge il prorettore. Senza considerare poi l'impatto potenziale della pandemia. “C'è un elemento che rappresenta il grande incomodo, l'invitato silente: tutto questo vale a meno che non parta la recessione negli Stati Uniti”, spiega Caselli. Poi conclude: “In tal caso, inevitabilmente anche Trump, che non ha mai fatto i conti con una situazione simile, si troverebbe a dover attuare delle politiche un po' meno protezionistiche e un po' più orientate al libero scambio. Tutto nella speranza di dare sostegno rapidamente al prodotto interno lordo americano”.
Giornalista professionista, è laureata in Politiche europee e internazionali. Precedentemente redattrice televisiva per Class Editori e ricercatrice per il Centro di Ricerca “Res Incorrupta” dell’Università Suor Orsola Benincasa. Si occupa di finanza al femminile, sostenibilità e imprese.

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