Crisi energetica: la strada dell'Italia, tra ostacoli e prospettive

Per comprendere verso quale orizzonte l’Italia e l’Unione europea si stanno muovendo, We Wealth ha interpellato Enzo di Salvatore, Direttore del Centro di ricerca “Transizione ecologica, sostenibilità e sfide globali" presso l'Università di Teramo e Davide Chiaroni, vicedirettore dell’"Energy&Strategy Group" della School of Management del Politecnico di Milano
La questione energetica è questione cruciale: in essa si condensano i più importanti interessi globali e, l’energia, segnerà l’egemonia economica di uno Stato su un altro
In buona sostanza, la guerra in corso ha aperto una partita importante che si gioca non solo sul fronte politico, diviso, tra le altre cose, tra Stati sanzionanti e Stati sanzionati, ma anche sul piano energetico, a sua volta diviso (a voler semplificare) tra Stati dipendenti e Stati fornitori. E che nella guerra l'energia sia fattore di primaria importanza è una circostanza che non può certo stupire: in un momento storico caratterizzato da scarsità di risorse e da tentativi, più o meno riusciti (o, al contrario, più o meno falliti) di avviare una riconversione cd. green, la questione energetica diviene cruciale: in essa si condensano i più importanti interessi globali e, sempre l'energia, segnerà l'egemonia economica di uno Stato su un altro.
A tal riguardo, per fare il punto della situazione e comprendere verso quale orizzonte l'Italia e l'Unione europea si stanno muovendo, We Wealth ha interpellato Enzo di Salvatore, professore di diritto costituzionale presso l'Università di Teramo e coordinatore del master in Diritto dell'energia e dell'ambiente e il Prof. Davide Chiaroni, vicedirettore dell'Energy&Strategy Group della School of Management del Politecnico di Milano.
DS: Non è facile dire se la data immaginata dalla Presidente della Commissione sia una data realistica. Partiamo però da una considerazione: sebbene il Trattato di Lisbona abbia formalmente elevato l'energia a politica dell'Unione, l'Ue non ha mai sviluppato una politica energetica comune. L'Ue fissa per gli Stati alcuni obiettivi da raggiungere, ma li lascia poi liberi di scegliere “tra varie fonti energetiche” (art. 194 TFUE), di modo che il c.d. mix energetico risulta diversificato da Paese a Paese. Il che comporta che una crisi come quella attuale manifesti effetti diversificati. Così, mentre ad esempio la Francia – in ragione dell'elevata produzione di energia nucleare – finisce per accusare meno gli effetti di questa crisi, la Germania e l'Italia finiscono per pagarne maggiormente le conseguenze, dipendendo la Germania e l'Italia più di altri Paesi dall'importazione di gas russo.
Quanto dipende dal gas russo l'Italia e quali sono invece le fonti di energia su cui occorrerebbe puntare, e dunque, investire in ambito domestico?
DS: La percentuale di dipendenza per l'Italia si aggira intorno al 40%. Far fronte a questa crisi valorizzando le riserve di gas nazionali è – al netto di ogni altra considerazione – una strada non praticabile. Almeno per due ragioni: la prima è che le riserve disponibili inciderebbero sul fabbisogno energetico nazionale in misura irrisoria; la seconda è che questa incidenza manifesterebbe i suoi effetti solo a medio e lungo termine, essendo impensabile che si rilascino ora nuovi permessi di ricerca e poi a seguire nuove concessioni di coltivazione. Per quanto si vogliano semplificare i procedimenti autorizzatori, la ricerca e la messa in produzione dei giacimenti richiederebbero (tecnicamente) tempo. Di questo ne è consapevole anche il governo, che non a caso ha ritenuto di dover valorizzare i giacimenti esistenti: il che, però, è possibile farlo per le concessioni che insistono in aree collocate fuori dalle 12 miglia marine attraverso una modifica dei programmi di lavoro, ma non per quelle ricadenti entro le 12 miglia, essendo prima necessario rimuovere il divieto posto dalla legge. E c'è un problema ulteriore: la legge n. 12 del 2019, che ha previsto l'istituzione del c.d. Pitesai (Piano per la transizione energetica sostenibile) ha tacitamente abrogato la norma approvata dal Parlamento nel 2016, che consentiva l'estrazione di idrocarburi fino alla “fine della vita utile del giacimento”. Resta, poi, la partita delle rinnovabili. Il punto è che non aver investito convintamente nel settore e non averne sostenuto per tempo lo sviluppo (anche snellendo i relativi procedimenti, come ha ammesso di recente lo stesso Presidente Draghi), non rende al momento le rinnovabili una alternativa possibile.
Con il Green Deal europeo l'Ue si sta adoperando per conseguire la neutralità climatica entro il 2050. Ebbene, decarbonizzare, promuovere l'idrogeno, ridurre le emissioni di metano: sono obiettivi ancora raggiungibili oppure, questa nuova crisi, li mette in deroga e ci si deve aspettare un ulteriore rinvio?
DS: A mio avviso no. Questa crisi e questa guerra hanno costi ambientali notevoli; e allontanano il raggiungimento dell'obiettivo della neutralità climatica fissato per il 2050, così come quello degli obiettivi intermedi (entro il 2030 dovremmo ridurre le emissioni di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990). Senza contare i costi sociali, legati ai cambiamenti climatici: basti pensare al problema delle migrazioni ambientali.
Escludere la Russia significa, inevitabilmente, rivolgersi ad un nuovo Stato, dunque a un nuovo partner commerciale. Verso chi volgerà lo sguardo, a suo avviso, l'Italia e più in generale l'Ue, nel breve-medio termine?
DS: Giocoforza sarà così almeno nell'immediato, guardando ad altre rotte e ricorrendo anche all'importazione di gas naturale liquefatto dagli Usa (sebbene anche in questo caso occorrerà avere nuovi rigassificatori). Mi permetto comunque di non dimenticare che sussiste una interdipendenza energetica tra chi “produce” e chi “consuma”. Perché, come ha osservato di recente Nicola Pedde su Limes, il sistema energetico europeo è, soprattutto in relazione al gas, un sistema “rigido”; e questo per chi “produce” non si traduce automaticamente in una apertura verso nuovi mercati: anche loro “hanno perso il treno della diversificazione infrastutturale”.
Si può dire che l'Unione europea è stata costruita anche a partire dagli accordi sull'energia (in senso lato). Si pensi al Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio firmato a Parigi nel 1951 o, ancora, al trattato Euratom, che ebbe a istituire la Comunità europea dell'energia atomica. Il conflitto in corso, è il pretesto per dare abbrivio ad una rinnovata integrazione tra Stati europei? Quali interventi occorrerebbe implementare per riformare la governance europea sull'energia e sul clima e, tramite una maggiore interconnessione dei mercati energetici, approfondire l'integrazione politica?
DS: L'unificazione politica resta un tema centrale. Storicamente non è stato possibile realizzarla, come avrebbero voluto molti intellettuali europei (da Calamandrei a Silone, per restare in Italia): in luogo del federalismo (politico) si optò allora per il funzionalismo (economico). Ma il paradosso è che oggi il processo di integrazione ha conosciuto una battuta d'arresto, come dimostra il crescente protagonismo di alcuni Stati membri. L'Ue ha formalmente nelle sue mani la politica monetaria, ma non quella economica, giacché i Trattati le assegnano il compito di coordinare la politica economica degli Stati membri in seno al Consiglio. A me pare che nel corso degli anni si sia lavorato più sulla “estensione” del processo di integrazione che sul suo “approfondimento”. Una efficace (e comune) governance energetica sconta, invece, un maggior approfondimento del processo di integrazione; ma quanto questo sia nell'immediato possibile (anche in ragione di una nuova ulteriore estensione dell'Unione ad Est) non saprei dire. Certo, occorrerà tornare a discutere di cosa vogliamo che sia l'Europa, muovendo da un dato di fatto, e cioè che in essa, dal punto di vista politico, convergono tre potenziali visioni diverse: del Nord, del Sud e dell'Est.
Professor Davide Chiaroni, come cambierà, a suo avviso, il mercato dell'energia in conseguenza della chiusura progressiva dei rapporti con la Russia e quali sono le ricadute economiche da aspettarsi nel breve periodo?
DC: Il periodo che stiamo attraversando è sicuramente complesso e le ricadute di breve termine non sono facili da stimare. Oggi l'Europa importa il 90% del gas di cui ha bisogno dall'estero, e per il 40% questo gas viene dalla Russia. Dalla Russia arriva poi il 27% del petrolio ed il 46% del carbone che serve all'Europa. Da un certo punto di vista, quindi, non è plausibile pensare ad una “chiusura” completa dei rapporti nel breve termine. È vero, inoltre, che l'impatto atteso delle tensioni sui prezzi è estremamente significativo. Già prima dell'invasione dell'Ucraina l'Ue stimava che l'impatto delle tensioni sul mercato dell'energia sarebbe costato 0,5 punti di Pil per il 2022, oggi è ragionevole attendersi un impatto almeno doppio. Un colpo molto pesante se si considera che l'Europa si stava riprendendo dopo la pandemia. Tuttavia, bisogna tenere conto anche di due fattori “positivi”: mano a mano che arriviamo verso la primavera, strutturalmente riduciamo il nostro fabbisogno di gas e questo rende meno vulnerabile la nostra economia. Inoltre, l'Ue si sta dimostrando compatta nel disegnare un pacchetto di aiuti straordinari per le imprese e per le famiglie, ed in questo senso già si è mosso anche il nostro Governo, permettendo di operare in deroga alle regole normali di contenimento del debito. Il conto lo dovremo ovviamente pagare, ma nel breve termine pare esserci la possibilità di utilizzare la spesa pubblica per ridurre l'impatto su famiglie e imprese e tenere, per quanto possibile, sotto controllo la fiammata inflattiva.
Si parla di decoupling energetico tra Russia e Ue. Ma quali sono gli Stati che hanno altrettante risorse disponibili per l'Europa e, inoltre, dal punto di vista infrastrutturale ci sono gli strumenti adeguati a garantire nuovi flussi?
DC: La Norvegia è il secondo “fornitore” di gas all'Unione Europea, contando per circa metà della Russia. C'è poi l'Algeria che potrebbe aumentare le proprie esportazioni, e peraltro passando dall'Italia. Così come un incremento delle importazioni di gas potrebbe arrivare dal Tap (che approda sul litorale sud della Puglia), così tanto vituperato negli anni passati ed ora quanto mai strategico per fornire una alternativa al gas russo. C'è poi la possibilità di utilizzare il gas liquefatto e quindi ampliare ulteriormente i confini dell'import. Vero è che in questo caso l'Italia ha perso il treno dei rigassificatori e può contare su una disponibilità molto limitata, ma la vera sfida – peraltro uno dei cavalli di battaglia anche del ministro Cingolani e che ora anche l'Unione Europea ha fatto sua in un documento di scenario dell'8 Marzo – è quella di sfruttare la stagione calda per far arrivare e “stoccare” in maniera condivisa a livello europeo il gas e permetterci quindi un inverno 2022 con disponibilità e scorte strategiche in grado di disinnescare la minaccia russa.
La crescente dipendenza dalle importazioni, la diversificazione limitata, e la rottura dei rapporti commerciali e politici con la Russia hanno fatto aumentare fortemente i prezzi, già particolarmente volatili, nel settore dell'energia. Siffatto scenario, dovrebbe far propendere le imprese a puntare su modelli di business innovativi nel settore dell'energia? Quali sono le strategie di investimento e organizzative da seguire?
DC: Qui la strada è molto chiara, una ulteriore accelerazione verso la decarbonizzazione. Questo significa ancora più rinnovabili, ed una spinta ancor più forte verso l'idrogeno ed il biometano. Quest'ultimo forse la vera novità dell'ultimo periodo, con un ruolo chiave nella transizione che invece l'aveva visto fino a qualche mese fa un po' giocare il ruolo della cenerentola. Saranno questi gli investimenti a guidare la crescita nel mercato energetico.