Rinuncia all'eredità: implicazioni sui debiti tributari

Nicola Dimitri
4.1.2022
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Se la rinuncia all'eredità dovesse pregiudicare i diritti dei creditori del rinunciante, questi potranno impugnarla

La rinuncia all’eredità impedisce che i debiti tributari del defunto raggiungano l’erede

Nel caso in cui la rinuncia di un chiamato avvenga verso corrispettivo, questa non si considererà integrata

Il tema della rinuncia all'eredità solleva sempre numerose preoccupazioni, in quanto investe numerosi interessi che, dagli eredi, si estendono fino a soggetti terzi, quali i creditori.
Premesso che la rinuncia è esercitata, nella maggior parte dei casi, per la natura antieconomica del patrimonio relitto, il punto di partenza per sviluppare una riflessione in materia è quello normativo.
Sul punto, come disciplinato ex artt. 519 e 521 cc., la rinuncia, ove eseguita dall'erede nelle forme previste dalla legge (a pena di nullità), rende quest'ultimo un soggetto estraneo rispetto all'asse.

In buona sostanza, colui che rinuncia all'eredità è considerato come mai fosse stato chiamato e, anche se l'atto di rinuncia opera con effetto retroattivo (con lo scopo di impedire che i beni facenti parte dell'asse vengano considerati res nullius), la rinuncia non obbliga il soggetto che la rende a rinunciare anche ai legati o alle donazioni eventualmente fatte in suo favore.

Né la rinuncia deve intendersi irrevocabile. Al contrario: ex art. 525 cc., a certe condizioni, (ad es. se l'eredità non è già stata acquistata da altri chiamati) il rinunciante può tornare a essere erede revocando la propria rinuncia, e impendendo che la delazione si orienti in favore dei chiamati ulteriori. Altrimenti detto, il rinunciante potrà tornare sui suoi passi, ma a condizione che altri eredi non abbiano, nel frattempo, già preso il suo posto.

La rinuncia è sempre un atto neutro e non può essere a titolo oneroso. Nel caso in cui la rinuncia di un chiamato avvenga verso corrispettivo, questa non si considererà integrata, in quanto implica sempre un'accettazione tacita dell'eredità: solo diventando erede, infatti, è possibile trasferire i beni e i diritti ereditari verso corrispettivo.

Ebbene, non acquistata la qualità d'erede, il rinunciante non acquista alcuno dei diritti a ciò conseguenti, né è sottoposto ad alcuno degli oneri che discendono dall'accettazione dell'eredità: ad esempio, non può promuovere la collazione, né può essere tenuto a prestarla. Ciò considerato, è il caso di entrare nel merito dei profili fiscali che scaturiscono a seguito della rinuncia.

In primo luogo, si evidenzia che il soggetto che rinuncia all'eredità ha diritto al rimborso dell'imposta di successione, ove versata, unitamente agli interessi e alle sanzioni.

In secondo luogo, a differenza degli altri eredi, il rinunciante non sarà considerato destinatario degli atti impositivi riferibili a debiti tributari del contribuente defunto; pertanto, gli eventuali atti di accertamento che dovessero raggiungere il chiamato all'eredità rinunciante sono da considerarsi illegittimi.

È consigliabile, però, onde evitare delle sorprese spiacevoli, assicurarsi che la rinuncia sia effettuata in modo corretto e non vi siano condizioni tali da far presumere un'accettazione, anche tacita, dell'eredità: la rinuncia si realizza con atto ricevuto da notaio o dal cancelliere del Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione e deve essere inserita nel registro delle successioni. In caso di rinuncia irregolare, infatti, la posizione del rinunciante sarà assimilabile a quella degli eredi che, pur chiamati all'eredità, non abbiano ancora accettato.
Esemplificativo dell'ipotesi di accettazione tacita è il caso in cui l'erede che rinuncia sia lo stesso che si trova in possesso di alcuni beni del de cuius: ad esempio, si trovi, a qualunque titolo, in possesso dell'abitazione del defunto.

Per l'accettazione tacita è, infatti, sufficiente che il possesso riguardi anche uno solo dei beni ereditari; possesso che non deve necessariamente manifestarsi in una attività corrispondente all'esercizio della proprietà su tali beni, ma si esaurisce in una mera relazione materiale tra questi ultimi ed il chiamato all'eredità, e cioè in una situazione di fatto che consenta l'esercizio di concreti poteri sui beni stessi.

Sul punto, l'art. 485 cc. dispone che: il chiamato all'eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari deve fare l'inventario entro tre mesi dal giorno dell'apertura della successione o della notizia della devoluta eredità. Trascorso tale termine (che può essere prorogato su richiesta al Tribunale) senza che l'inventario sia stato compiuto, il chiamato all'eredità (diverso è il caso del coniuge superstite) è considerato erede puro e semplice.

E invero, il soggetto che realizzi in modo corretto la rinuncia non risponderà dei debiti tributari del de cuius, neppure per il periodo intercorrente tra l'apertura della successione e la rinuncia.

E i creditori? Nel caso in cui la rinuncia all'eredità dovesse pregiudicare i diritti dei creditori del rinunciante, questi potranno impugnarla, auspicando – però – di potersi soddisfare sui beni ereditari solo fino alla concorrenza del proprio credito.

Pertanto, il creditore del chiamato, può verificare l'efficacia potenzialmente pregiudizievole della rinuncia nei suoi confronti, ma non può pretendere, oltre all'acquisizione dell'eredità nella sfera del rinunciante in funzione strumentale per il soddisfacimento del credito, che il debitore acquisisca il titolo di erede in luogo dei chiamati in ordine successivo.
Redattore e coordinatore dell'area Fiscal & Legal di We Wealth. In precedenza ha lavorato nell'ambito del diritto tributario e della fiscalità internazionale presso primari studi legali

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