Estinzione della società: il socio è responsabile dei debiti tributari

19.11.2021
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Con l’ordinanza n.31904 del 5 novembre 2021 la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che l’Amministrazione finanziaria, ove i soci abbiano riscosso somme dal bilancio finale di liquidazione, può azionare nei confronti di questi ultimi la pretesa tributaria definitiva della Società estinta
Il caso oggetto del giudizio
L’amministrazione finanziaria notificava un avviso di accertamento nei confronti di una Società. Questa, a seguito dell’instaurazione del giudizio innanzi alla Commissione Tributaria competente, interrompeva il processo stante l’avviso della procedura di estinzione della società.
Per i giudici di legittimità, in tema di società di capitali, la disciplina dettata dall'art. 2495 c.c., comma 2, come modificato dal d.lgs. n. 6 del 2003, art. 4 nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata della società, implica che nei debiti sociali subentrano "ex lege" i soci, sicchè l’Erario, ove le proprie ragioni nei confronti della società siano state definitivamente accertate (ad esempio, per mancata tempestiva impugnazione dell'atto impositivo, ovvero per intervenuta estinzione del relativo giudizio, o infine per intervenuto giudicato sostanziale) può procedere all'iscrizione a ruolo dei tributi non versati sia a nome della Società estinta, sia a nome dei soci. La pretesa tributaria, dunque, può essere azionata anche nei confronti dei soci stessi, non occorrendo procedere all'emissione di autonomo avviso di accertamento. Il tutto, nei limiti di quanto percepito in sede di chiusura e di bilancio di liquidazione.
La tematica è stata di recente oggetto di verifica costituzionale.
L’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 175/2014 stabilisce che, ai soli fini della liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’art. 2495 c.c. ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese. Gli effetti dell’estinzione delle società di capitali e delle società di persone, ai fini fiscali, quindi, è differita di cinque anni dalla loro cancellazione.
La norma risponde a esigenze di controllo e accertamento negli ordinari termini previsti dalla disciplina tributaria e di notifica dei relativi atti direttamente all’originario debitore.
Con recentissima sentenza n. 142 dello scorso 8 luglio, la Corte Costituzionale ha confermato la piena legittimità della norma summenzionata, rimarcando che alcune deroghe al diritto comune, previste dalla legge tributaria, se ragionevoli e giustificate dall’interesse fiscale costituzionalmente inteso, sono legittime: “la norma è nata dalla necessità del legislatore di evitare le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori, che perseguono l’interesse fiscale, possano essere vanificate dall’estinzione della società”. In altri termini, ad avviso della Corte Costituzionale, l’interesse fiscale non è sacrificabile alle scelte privatistiche che possono intervenire strumentalmente sulla vita della persona giuridica e sottrarla all’adempimento dei suoi obblighi tributari.
La tematica è stata di recente oggetto di verifica costituzionale.
L’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 175/2014 stabilisce che, ai soli fini della liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’art. 2495 c.c. ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese. Gli effetti dell’estinzione delle società di capitali e delle società di persone, ai fini fiscali, quindi, è differita di cinque anni dalla loro cancellazione.
La norma risponde a esigenze di controllo e accertamento negli ordinari termini previsti dalla disciplina tributaria e di notifica dei relativi atti direttamente all’originario debitore.
Con recentissima sentenza n. 142 dello scorso 8 luglio, la Corte Costituzionale ha confermato la piena legittimità della norma summenzionata, rimarcando che alcune deroghe al diritto comune, previste dalla legge tributaria, se ragionevoli e giustificate dall’interesse fiscale costituzionalmente inteso, sono legittime: “la norma è nata dalla necessità del legislatore di evitare le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori, che perseguono l’interesse fiscale, possano essere vanificate dall’estinzione della società”. In altri termini, ad avviso della Corte Costituzionale, l’interesse fiscale non è sacrificabile alle scelte privatistiche che possono intervenire strumentalmente sulla vita della persona giuridica e sottrarla all’adempimento dei suoi obblighi tributari.
Il comma 4 dell’art. 28, in sostanza, non fa dunque “rivivere” la società estinta, ma differisce di cinque anni, ai fini fiscali, gli effetti dell’estinzione della società decorrenti dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese. Tale differimento è limitato al settore tributario e contributivo ed è pienamente giustificato, atteso che non esiste un principio di parità di trattamento tra lo stato – creditore sociale e gli altri creditori privati.
Il credito tributario, portatore dell’interesse fiscale, non deve ricevere necessariamente il medesimo trattamento di qualsiasi altro interesse creditorio, perché non è equiparabile a nessun altro pari interesse creditorio, in quanto è condizione di vita stessa per la comunità. Pertanto osserva la corte come la norma scrutinata è funzionale all’attuazione dell’interesse fiscale costituzionalmente rilevante.
Sicché, i soci possono essere chiamati a rispondere dei debiti tributari della società: ciò, nei limiti previsti dall’art. 2495, c.c., e dall’art. 36, D.p.r. n. 602/1973, ossia, rispettivamente, che dalla cessazione e liquidazione siano emersi degli elementi attivi, ovvero sussista una responsabilità dei soggetti azionata con un autonomo avviso di accertamento.
L’ordinanza in commento appare essere pienamente condivisibile: i Giudici hanno applicato le disposizioni citate in modo corretto, rilevando anche la preminenza della tutela dell’interesse fiscale. Al contribuente non resta che ponderare accuratamente tutte le scelte connesse all’estinzione della Società, valutando preventivamente le possibili conseguenze negative.
Il credito tributario, portatore dell’interesse fiscale, non deve ricevere necessariamente il medesimo trattamento di qualsiasi altro interesse creditorio, perché non è equiparabile a nessun altro pari interesse creditorio, in quanto è condizione di vita stessa per la comunità. Pertanto osserva la corte come la norma scrutinata è funzionale all’attuazione dell’interesse fiscale costituzionalmente rilevante.
Sicché, i soci possono essere chiamati a rispondere dei debiti tributari della società: ciò, nei limiti previsti dall’art. 2495, c.c., e dall’art. 36, D.p.r. n. 602/1973, ossia, rispettivamente, che dalla cessazione e liquidazione siano emersi degli elementi attivi, ovvero sussista una responsabilità dei soggetti azionata con un autonomo avviso di accertamento.
L’ordinanza in commento appare essere pienamente condivisibile: i Giudici hanno applicato le disposizioni citate in modo corretto, rilevando anche la preminenza della tutela dell’interesse fiscale. Al contribuente non resta che ponderare accuratamente tutte le scelte connesse all’estinzione della Società, valutando preventivamente le possibili conseguenze negative.