Comunione beni: che fine fa l'impresa quando salta il matrimonio

Una sentenza della Cassazione stabilisce che si tratti tuttavia di un mero diritto di credito quantificabile in un valore pari alla metà del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività
Il rapporto tra regime di comunione legale tra coniugi e titolarità dell’impresa e diritti sui suoi utili è, in fondo, misconosciuto. Qui intendiamo concentrarci sui diritti invocabili da ciascun coniuge, al momento dello scioglimento del matrimonio, sulle imprese riconducibili a uno solo di essi. Il Codice Civile, all’art. 159, dispone che, in mancanza di diversa convenzione, il regime patrimoniale della famiglia è la comunione dei beni, in virtù della quale i coniugi hanno uguali poteri di cogestione e pari diritti nell’amministrazione dei beni.
Vi rientrano: gli acquisti compiuti da entrambi durante il matrimonio, a esclusione dei beni personali ex art. 179 Codice Civile; le aziende gestite da entrambi e costituite durante il matrimonio gli utili e gli incrementi delle aziende sorte prima del matrimonio ma gestite da entrambi. Tra i beni personali sempre esclusi dalla comunione vanno annoverati quelli che servono a uno dei coniugi per l’esercizio della propria professione a meno che non siano destinati alla conduzione di un’azienda che rientra nella comunione. Per contro, la separazione dei beni comporta la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio da ciascun coniuge e l’amministrazione in totale autonomia dei medesimi. L’eventuale regime di comunione convenzionale ai sensi dell’art. 210 del Codice Civile, fa sempre salvi i beni personali ex art 179 del Codice Civile. Pur essendo anche il regime della comunione chiaramente orientato a “salvaguardare” l’azienda di uno dei coniugi dalle possibili conseguenze nefaste di una rivendicazione dell’altro sui beni aziendali in costanza di matrimonio, è innegabile che al momento dello scioglimento del matrimonio criticità possano comunque sorgere.
Infatti, l’art. 178 del Codice Civile (rubricato “Beni destinati all’esercizio di impresa”) dispone che i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gli incrementi di un’impresa costituita anche precedentemente allo stesso sono di proprietà del coniuge imprenditore in costanza di matrimonio. Sono tuttavia considerati oggetto della comunione se sussistono al momento dello scioglimento della stessa. Si tratta della comunione de residuo, ossia di quei beni che non cadono immediatamente in comunione, ma vi rientrano ai fini della divisione. Dunque, al coniuge non imprenditore viene riconosciuto un diritto pari al 50% dei beni dell’impresa al momento dello scioglimento. La questione problematica attiene alla natura di tale diritto: al coniuge non imprenditore spetta un diritto di credito o un diritto reale su tali beni? A dirimere la controversia è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 15889 del 17 maggio 2022.
Nel caso di specie, veniva contestato il diritto vantato dalla ex coniuge in comunione legale dei beni, non titolare dell’azienda, la quale chiedeva di vedersi riconoscere, ex art. 178 Codice Civile, la caduta in comunione dei beni aziendali acquistati dal marito e il conseguente suo diritto di comproprietà, pari al 50%, dei fondi. Le Sezioni Unite riconoscono al coniuge non imprenditore un mero diritto di credito quantificabile in un valore pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo. I giudici infatti evidenziano che la tesi della natura reale del diritto avrebbe quale effetto la comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, con evidenti problemi per la gestione futura dei medesimi e con l’ulteriore inconveniente per i terzi che hanno avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, i quali vedrebbero i beni non più di titolarità per l’intero dell’imprenditore, ma in comunione con l’altro coniuge, con conseguente riduzione della garanzia patrimoniale a favore dei creditori.
Questo articolo è tratto dal numero del magazine We Wealth di novembre