Black list: retroattivo il raddoppio dei termini per l'accertamento?

Domenico Ponticelli
Domenico Ponticelli
21.12.2021
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La Corte di Cassazione con una serie di pronunce recenti (l'ultima è la sentenza n. 18894 del 5 luglio 2021) ha assunto una posizione discutibile e poco garantista per quanto riguarda i termini per l'accertamento fiscale delle attività finanziarie detenute nei Paesi black list
Nell'ambito del wealth management un aspetto da sempre oggetto di interesse, anche sotto il profilo fiscale, è rappresentato dall'amministrazione delle attività patrimoniali (disponibilità liquide, titoli, immobili e altri “beni di rifugio”) detenute all'estero da residenti in Italia. Per tali attività l'ordinamento giuridico tributario – in particolare la disciplina introdotta con il Dl n. 167/1990 – prevede infatti obblighi di monitoraggio in dichiarazione dei redditi (tramite la compilazione del quadro Rw) sotto pena di sanzioni amministrative in caso di violazione. L'adempimento dichiarativo è peraltro necessario al fine di liquidare le imposte applicabili in Italia relative a tali attività (Ivie, Ivafe). È inoltre disposta una presunzione di fruttuosità delle disponibilità estere non dichiarate sulla cui base l'Amministrazione finanziaria può accertare maggiori redditi e conseguentemente maggiori imposte, con relative sanzioni e interessi.

Il legislatore è poi sovente intervenuto – non senza ricevere critiche sotto il profilo dell'opportunità “politica” – con istituti “premiali” (ovvero “condoni”, sotto diversa prospettiva) volti a incentivare i contribuenti a “uscire allo scoperto” e sanare (con imposte e misure punitive ridotte) le pregresse violazioni in tema di monitoraggio. Uno degli interventi in tal senso è avvenuto con il Dl n. 78/2009 (il cosiddetto “scudo ter”). Tale disciplina ha consentito a numerosi contribuenti di effettuare il “rimpatrio” o comunque la “regolarizzazione” delle attività estere non dichiarate, al contempo alimentando contenziosi con il Fisco per tutti gli altri soggetti che non si sono avvalsi dell'opportunità ovvero che detenevano attività “non scudabili” in quanto localizzate in Paesi che non assicurano un adeguato scambio di informazioni con le autorità fiscali italiane.

Il Dl n. 78/2009, infatti, da un lato ha previsto la sanatoria mediante lo scudo ter, dall'altro (all'opposto) ha potenziato gli strumenti al servizio dell'Agenzia delle entrate per accertare le attività detenute in tali “paradisi fiscali” prevedendo, con l'art. 12, comma 2, una presunzione legale relativa: in assenza di prova contraria fornita dal contribuente, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute in Paesi a regime fiscale privilegiato e non dichiarate ai fini del monitoraggio fiscale si presumono costituite mediante redditi sottratti a tassazione in Italia e, per tale ragione, sono assoggettati a sanzioni raddoppiate.

Inoltre, l'Amministrazione finanziaria, nel caso in cui fondi un accertamento di maggiori imposte (dirette o Iva) su detta presunzione di evasione, è legittimata ad applicare anche il comma 2-bis della citata disposizione, che consente l'accertamento in un termine raddoppiato rispetto a quello ordinario (attualmente di 6 anni); il termine è raddoppiato anche per le violazioni relative al monitoraggio, ai sensi del comma 2-ter.

Si tratta, come è agevole comprendere, di un contesto molto delicato, in quanto da un lato vi sono le ragioni di tutela dell'Amministrazione finanziaria, che deve garantire il concorso di tutti alle spese pubbliche ed essere messa in condizione di sanzionare l'evasione, dall'altro c'è il doveroso rispetto delle garanzie del contribuente, che ha comunque diritto a non soggiacere a un potere di accertamento incontrollato ed esteso a periodi d'imposta in cui dette disposizioni non erano ancora efficaci.

Le suddette norme – entrate in vigore nel 2010 – hanno dunque sin da subito suscitato un acceso dibattito riguardo alle annualità interessate da tale raddoppio dei termini. Secondo una tesi “garantista”, il raddoppio non potrebbe essere applicato alle annualità precedenti al 2010, pena una lesione del principio di irretroattività della legge riguardo ai suoi effetti sostanziali sul contribuente: pertanto, l'Agenzia delle entrate non potrebbe accertare, una volta scaduto il termine ordinario, gli anni 2009 e i precedenti. Secondo l'opposta tesi, invece, le norme sul raddoppio in questione sarebbero sottratte al divieto di retroattività, in quanto disposizioni non “sostanziali” bensì “procedimentali”, che vanno quindi applicate avuto riguardo al momento in cui l'autorità fiscale effettua l'accertamento. Molti dei contenziosi ancora in essere relativi ad annualità precedenti al 2010, i cui atti impositivi sono stati notificati dall'Agenzia delle entrate quando i termini ordinari erano già spirati, vertono quindi, tra le altre cose, sulla legittimità dell'utilizzo del raddoppio dei termini. Si tratta quindi di una questione giuridica ben circoscritta nel tempo ma che porta a interrogarsi più in generale sulla legittimità della rimessione in termini dell'attività accertatrice.
Secondo il più recente orientamento della Corte di Cassazione – che accoglie la tesi favorevole all'Agenzia delle entrate – le disposizioni dei commi 2, 2-bis e 2-ter dell'art. 12 devono essere valutate autonomamente in base a criteri interpretativi distinti. In particolare, i supremi giudici hanno sostenuto che solo la norma sulla presunzione di evasione relativa alle attività detenute in Paesi black list non dichiarate (ossia l'art. 12, comma 2) sarebbe norma sostanziale e irretroattiva. La disciplina del raddoppio di cui ai commi 2-bis e 2-ter, invece, sarebbe una normativa “procedimentale”, non apportando modifiche all'obbligazione tributaria o alla posizione soggettiva del contribuente, ma incidendo esclusivamente sui termini di esercizio del potere di controllo.

Il raddoppio dei termini per la Cassazione, come letteralmente affermato, opera sia nel caso in cui l'ufficio, avvalendosi della presunzione legale, accerti che la disponibilità finanziaria detenuta nei “paradisi fiscali”, e non dichiarata, è provento di redditi sottratti a tassazione, sia nel caso, equivalente, in cui l'ufficio, senza ricorrere alla presunzione in oggetto in quanto non applicabile retroattivamente, contesti comunque la medesima fattispecie di sottrazione alla tassazione di redditi esportati in paesi a fiscalità privilegiata, avvalendosi, secondo le regole probatorie ordinarie, di presunzioni semplici, qualificate dalla gravità, precisione e concordanza.
Ne consegue che il raddoppio dei termini – generalizzato, a prescindere che sia utilizzata la presunzione di evasione in oggetto – troverebbe legittimamente applicazione con riferimento alle annualità precedenti al 2010, sebbene i relativi atti di accertamento siano stati notificati quando il termine di decadenza ordinario era oramai spirato.

La tesi della Cassazione non convince sotto diversi profili


Innanzitutto, qualsiasi disposizione che introduca un meccanismo di raddoppio dei termini di accertamento risulta particolarmente incisiva nei confronti dei contribuenti, giacché consente all'Amministrazione di accertarne la posizione fiscale sostanziale beneficiando di un periodo temporale significativamente più esteso rispetto all'ordinario. Tanto è vero che, ad esempio, la disciplina del raddoppio dei termini in caso di trasmissione dall'Amministrazione finanziaria all'autorità giudiziaria di una notitia criminis, dopo essere stata perfezionata diverse volte e circoscritta, è stata definitivamente espunta dall'ordinamento interno. Ciò manifesta un certo disfavore, almeno di recente, del Legislatore verso questo tipo di misure e una tendenza della politica legislativa fiscale ad abbandonarle.

Nell'ottica della tutela dei diritti di difesa del contribuente, di legittimo affidamento e di certezza del diritto, peraltro, attribuire efficacia retroattiva al raddoppio significherebbe chiedere al contribuente di premunirsi di una prova contraria, a propria difesa, in assenza di una normativa che prescrivesse all'epoca un tale onere. L'onere documentale nella specie sarebbe particolarmente gravoso, richiedendo la ricostruzione a ritroso – per un numero di anni potenzialmente molto ampio – delle modalità di costituzione dei capitali esteri. In una visione sostanzialista dell'intera normativa in materia di contrasto ai paradisi fiscali, si ritiene perciò che essa sia nel complesso (quindi anche per ciò che attiene ai profili della tempistica dell'accertamento) assoggettata al generale divieto di applicazione retroattiva delle leggi.

Ciò che più sorprende è che, come accennato, secondo la Suprema Corte il raddoppio dei termini opererebbe a prescindere che sia utilizzata la presunzione di evasione di cui al citato comma 2 dell'art. 12 del D.L. n. 78/2009.

Ebbene, affermare da un lato l'irretroattività del regime di presunzione legale recata dal comma 2 (che prevede anche il raddoppio delle sanzioni) e dall'altro l'operatività del raddoppio del termine di accertamento (di cui ai commi 2-bis e 2-ter) anche per accertamenti fondati su detta presunzione costituisce una evidente contraddizione in termini, che crea un cortocircuito logico, oltreché interpretativo. In realtà, la norma sul raddoppio dei termini di cui al comma 2-bis (relativa all'accertamento delle maggiori imposte dirette e Iva) fa espresso rinvio alla presunzione di cui al comma 2. Pertanto, non sembra possibile immaginare il ricorrere di tale raddoppio all'infuori di una fattispecie in cui l'ufficio faccia utilizzo di tale presunzione di evasione (che tuttavia non potrebbe operare retroattivamente, come detto). Stesso discorso dovrebbe valere per il comma 2-ter (anche se in questo caso manca un espresso rinvio al comma 2) dato che si tratta di una disposizione emanata nello stesso contesto e anch'essa sistematicamente collegata ai commi 2 e 2-bis.

L'interpretazione della giurisprudenza in commento finisce col dilatare irragionevolmente i termini per l'accertamento, ledendo il diritto alla difesa del contribuente. La lotta all'evasione – pur costituendo un obiettivo di per sé commendevole a prescindere dalla prospettiva politica da cui si guardano le scelte del legislatore tributario e il modus operandi dell'Agenzia delle entrate – dovrebbe sempre svolgersi “ad armi pari” e nel rispetto del diritto alla difesa, senza sottoporre il contribuente ad accertamenti fondati su norme che, non essendo in vigore al momento dei comportamenti posti in essere, rischiano poi di dare luogo a effetti imprevedibili e irrimediabili. Si deve infatti considerare, ad esempio, che disponibilità estere possedute e dismesse prima del 2010 possono benissimo essersi originate in periodi d'imposta molto risalenti e non più accertabili (anche applicando ogni raddoppio possibile) senza che tuttavia il contribuente abbia conservato prova del periodo di formazione reddituale, pensando in buona fede di essere (alla scadenza di quello che lui pensava essere il termine ordinario) oramai al riparo da ogni pretesa fiscale. In una simile fattispecie la presunzione di evasione, applicata agli anni accertabili con il raddoppio, sortirebbe effetti (ingiustamente) devastanti.

La Corte di Cassazione non è nuova a questo genere di posizioni estensive rispetto all'interpretazione di norme che rimettono in termini il Fisco e introducono disparità evidenti tra chi esegue l'accertamento e chi, non avendo a suo tempo avuto modo di predisporre alcuna difesa, rischia di trovarsi in uno stato di totale soggezione e “sconfitto in partenza” (anche se come visto avrebbe potuto opporre valide eccezioni). Sebbene la questione in oggetto sia circoscritta al contenzioso relativo alle annualità precedenti al 2010 (accertate in anni in cui erano scaduti i termini ordinari) e non si ponga con riferimento ai periodi d'imposta successivi (per i quali il raddoppio opera certamente), la sensibilità degli interpreti del diritto non dovrebbe lasciarsi condizionare dal fatto che si tratta di una tematica che interessa solo alcuni contribuenti ed è comunque destinata ad esaurirsi. In realtà, ogni volta che si mette in discussione la parità tra Fisco e contribuente si va a minare un principio fondamentale di civiltà giuridica, infliggendo al sistema un vulnus che rischia di propagarsi anche su altre questioni tutt'altro che chiuse, che potrebbero generare in futuro nuovi contenziosi. Per queste ragioni sulla questione è auspicabile un ripensamento in chiave “garantista” da parte della Cassazione, che assuma quale paradigma l'uguaglianza e il rispetto del diritto di difesa.
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Partner dello studio legale Gattai, Minoli, Partners, Domenico Ponticelli è specializzato in fiscalità internazionale e dei prodotti finanziari, fondi di private equity e real estate, operazioni di finanza straordinaria ed M&A e contenzioso tributario. Membro del Tax & legal committee Aifi è inoltre relatore in seminari e convegni nazionali e autore di pubblicazioni su tematiche di diritto tributario e internazionale.

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