Il lato gentile del fintech

24.12.2019
Tempo di lettura: 3'
La digitalizzazione del settore finanziario è una leva capace di amplificare le opportunità di business, promuovendo una maggiore partecipazione delle donne. Un'occasione per un paese come l'Italia che è in ritardo
Secondo il Desi, i paesi protagonisti di una maggiore partecipazione delle donne nell'economia digitale godono anche dei livelli più elevati di digitalizzazione
Nel 2019 il fintech ha rappresentato la principale categoria d'investimento nel continente europeo, attirando il 20% del totale degli investimenti
Secondo i dati Istat del 2018, le donne italiane faticano ancora a ottenere posizioni di vertice (rappresentano il 32% dei dirigenti)
Donne e digitalizzazione, digitalizzazione ed economia. Esiste un sottilissimo fil rouge che lega i due binomi e li rende parte di un'unica relazione, che si espande e raggiunge anche gli angoli più remoti dell'universo del fintech europeo.
Secondo la relazione del Desi (Digital economy and society index), lo strumento attraverso il quale la Commissione europea monitora la competitività degli Stati membri in termini di digitalizzazione dell'economia e della società, i paesi protagonisti di una maggiore partecipazione delle donne nell'economia digitale godono infatti anche dei livelli più elevati di digitalizzazione. A guidare la classifica sono la Finlandia, la Svezia, il Lussemburgo e la Danimarca, gli stessi paesi che primeggiano anche nell'indice Wid (Women in Digital), oggi parte integrante del Desi. Il Nord Europa registra forti investimenti anche nel settore dell'educazione digitale, riuscendo così a colmare il gap prodotto dalle società in termini di diversità di genere. L'Italia, invece, ingoia la polvere, restando bloccata da anni nelle retrovie della classifica e “guadagnando” un infelice 24° posto, accompagnata nel girone da Bulgaria, Romania e Grecia.
Se si parla di fintech, la situazione sembra non essere più rosea. Secondo il report annuale di Finch Capital e Dealroom, The state of European fintech, nel 2019 il fintech ha rappresentato la principale categoria d'investimento nel continente europeo, attirando il 20% del totale degli investimenti (5,1 miliardi di euro), superando il continente asiatico (2,2 miliardi) e mettendo il fiato sul collo agli Stati Uniti (7,5 miliardi). Al contrario, il Belpaese continuerebbe a boccheggiare. “Diverse indagini conoscitive, lanciate sul mercato dalle autorità per verificare quante risorse siano state investite nel fintech dagli operatori tradizionali, mostrano dei risultati poco esaltanti – spiega Maria-Teresa Paracampo, docente presso l'Università degli Studi di Bari -. Negli altri paesi le autorità hanno implementato dei facilitatori di innovazione, che possono assumere la forma dell'innovation hub (polo di innovazione) e della regulatory sandbox, spazi di sperimentazione controllata ai quali possono rivolgersi tutti i soggetti interessati a testare nuove soluzioni finanziarie dal vivo, direttamente sui consumatori, ma in un ambiente sicuro, tale da prevenire eventuali rischi connessi a modelli di business innovativi.
Se si parla di fintech, la situazione sembra non essere più rosea. Secondo il report annuale di Finch Capital e Dealroom, The state of European fintech, nel 2019 il fintech ha rappresentato la principale categoria d'investimento nel continente europeo, attirando il 20% del totale degli investimenti (5,1 miliardi di euro), superando il continente asiatico (2,2 miliardi) e mettendo il fiato sul collo agli Stati Uniti (7,5 miliardi). Al contrario, il Belpaese continuerebbe a boccheggiare. “Diverse indagini conoscitive, lanciate sul mercato dalle autorità per verificare quante risorse siano state investite nel fintech dagli operatori tradizionali, mostrano dei risultati poco esaltanti – spiega Maria-Teresa Paracampo, docente presso l'Università degli Studi di Bari -. Negli altri paesi le autorità hanno implementato dei facilitatori di innovazione, che possono assumere la forma dell'innovation hub (polo di innovazione) e della regulatory sandbox, spazi di sperimentazione controllata ai quali possono rivolgersi tutti i soggetti interessati a testare nuove soluzioni finanziarie dal vivo, direttamente sui consumatori, ma in un ambiente sicuro, tale da prevenire eventuali rischi connessi a modelli di business innovativi.
In Italia, però, in controtendenza con gli altri Paesi, si è intrapresa la strada più tortuosa tramite l'adozione dello strumento normativo, che introduce degli elementi di rigidità in un ambiente che dovrebbe invece conservare una certa flessibilità. Secondo la professoressa Paracampo, infatti, l'art. 36 introdotto dal Decreto crescita a riguardo presenta degli elementi di limitata chiarezza, demandando di fatto a uno o più provvedimenti che dovranno essere emessi dal Ministero dell'economia e delle finanze e allungando di conseguenza le tempistiche. “In quella che potrebbe definirsi una boscaglia regolamentare, che sta ormai soffocando gli operatori tradizionali e nel contempo non consente ai nuovi player di decollare sul mercato – continua la Paracampo – il fintech potrebbe rappresentare l'occasione per “disboscare” in qualche modo l'esistente, diminuendo il fardello delle pressioni regolamentari e, in definitiva, favorendo tutti i soggetti in campo”.
Tra questi, anche la componente femminile. Secondo i dati Istat del 2018, le donne italiane faticano ancora a ottenere posizioni di vertice (rappresentano il 32% dei dirigenti). Eppure, le aziende caratterizzate da una maggiore presenza femminile nei board sembrano registrare i bilanci migliori. Ma non basta. “Penso che il vero passo in avanti sia quello di vedere nelle donne un valore aggiunto che operi in sinergia con quello maschile – aggiunge la professoressa – Uomini e donne hanno caratteristiche e propensioni differenti, quindi ognuno di loro può apportare un valore che non deve essere visto alla luce della competizione, ma della cooperazione. Quando nelle donne si vedrà un valore aggiunto rispetto non solo a quello che possono apportare nell'ambito dei board ma in tutti i campi della società, solo allora potrà parlarsi di un passo in avanti, in una logica di win-win e non di competitività”.
Anche in questo contesto, il fintech rappresenterebbe la chiave, un vero e proprio “ponte per colmare le problematiche relative all'inclusione finanziaria”. Dalla gestione del budget familiare all'incarnazione della figura di imprenditrici, le donne devono dunque puntare all'educazione digitale secondo due direttrici: da un lato, migliorando le competenze di utilizzo degli strumenti digitali, e dall'altro incrementando la consapevolezza delle proprie possibilità, rientrando nei confini di un contesto sociale che le trattiene (ancora) ai margini.
“Arrossirei, se potessi”. È la risposta di Siri, l'assistente digitale sviluppato da Apple, in caso di offese o molestie a sfondo sessuale. Una risposta che non risulterebbe sufficiente a tutelare un eventuale abuso di genere nella vita reale. Ma nell'intangibile mondo virtuale sembra aver convinto gli sviluppatori dell'azienda statunitense che per un software, in fondo, non fossero necessarie troppe attenzioni.
Eppure, secondo l'omonimo rapporto dell'Unesco, I'd blush if I could – Closing gender divides in digital skills through education, le tecnologie celano talvolta delle forme discriminatorie e pregiudizievoli nei confronti delle donne, che non possono essere tralasciate. Basti pensare che la maggior parte dei chatbot (software che simulano conversazioni con esseri umani, gestite tramite sistemi di intelligenza artificiale, per interagire con i clienti, raccogliere le loro richieste e fornire risposte) hanno nomi femminili: da Alexa (Amaxon Echo) a Cortana (Microsoft), da Caterina (Comune di Siena) a Valentina (Bper banca).
“Non è un caso – spiega Maria Teresa Paracampo –, le donne sono considerate più suadenti nella voce e le assistenti virtuali, anche nelle condizioni d'uso, sono indicate come servili, obbedienti, ossequiose, gentili, servizievoli, sottomesse, docili. Sono solo alcuni degli aggettivi che sembrano rilegare la donna a un ruolo subordinato”. Nonostante lo stereotipo sia perpetrato nel mondo tecnologico, il confine tra irreale e reale è labile e rischia di instaurare delle associazioni negative anche nella quotidianità.
“Arrossirei, se potessi” è stato modificato in “non so come rispondere”, ma sembra non essere sufficiente. Le donne sono di fatto sottorappresentate nel settore tecnologico e questo influirebbe anche sugli stessi algoritmi che regolano i sistemi di intelligenza artificiale. “Se chi crea gli algoritmi è condizionato dagli stereotipi, li trasferirà anche negli algoritmi creati”, continua la Paracampo. C'è però una via di fuga. L'Unesco ha infatti indicato alcune possibili strade da percorre per evitare che tali bias vengano trasmessi dal team che crea la tecnologia di mercato alla tecnologia stessa. Innanzitutto, vietando il ricorso alle voci femminili e incentivando lo sviluppo di assistenti virtuali con un genere neutro, ma anche creando una certificazione per garantire la mancanza di pregiudizio degli algoritmi.
Tra questi, anche la componente femminile. Secondo i dati Istat del 2018, le donne italiane faticano ancora a ottenere posizioni di vertice (rappresentano il 32% dei dirigenti). Eppure, le aziende caratterizzate da una maggiore presenza femminile nei board sembrano registrare i bilanci migliori. Ma non basta. “Penso che il vero passo in avanti sia quello di vedere nelle donne un valore aggiunto che operi in sinergia con quello maschile – aggiunge la professoressa – Uomini e donne hanno caratteristiche e propensioni differenti, quindi ognuno di loro può apportare un valore che non deve essere visto alla luce della competizione, ma della cooperazione. Quando nelle donne si vedrà un valore aggiunto rispetto non solo a quello che possono apportare nell'ambito dei board ma in tutti i campi della società, solo allora potrà parlarsi di un passo in avanti, in una logica di win-win e non di competitività”.
Anche in questo contesto, il fintech rappresenterebbe la chiave, un vero e proprio “ponte per colmare le problematiche relative all'inclusione finanziaria”. Dalla gestione del budget familiare all'incarnazione della figura di imprenditrici, le donne devono dunque puntare all'educazione digitale secondo due direttrici: da un lato, migliorando le competenze di utilizzo degli strumenti digitali, e dall'altro incrementando la consapevolezza delle proprie possibilità, rientrando nei confini di un contesto sociale che le trattiene (ancora) ai margini.
Se Siri dà voce agli stereotipi
“Arrossirei, se potessi”. È la risposta di Siri, l'assistente digitale sviluppato da Apple, in caso di offese o molestie a sfondo sessuale. Una risposta che non risulterebbe sufficiente a tutelare un eventuale abuso di genere nella vita reale. Ma nell'intangibile mondo virtuale sembra aver convinto gli sviluppatori dell'azienda statunitense che per un software, in fondo, non fossero necessarie troppe attenzioni.
Eppure, secondo l'omonimo rapporto dell'Unesco, I'd blush if I could – Closing gender divides in digital skills through education, le tecnologie celano talvolta delle forme discriminatorie e pregiudizievoli nei confronti delle donne, che non possono essere tralasciate. Basti pensare che la maggior parte dei chatbot (software che simulano conversazioni con esseri umani, gestite tramite sistemi di intelligenza artificiale, per interagire con i clienti, raccogliere le loro richieste e fornire risposte) hanno nomi femminili: da Alexa (Amaxon Echo) a Cortana (Microsoft), da Caterina (Comune di Siena) a Valentina (Bper banca).
“Non è un caso – spiega Maria Teresa Paracampo –, le donne sono considerate più suadenti nella voce e le assistenti virtuali, anche nelle condizioni d'uso, sono indicate come servili, obbedienti, ossequiose, gentili, servizievoli, sottomesse, docili. Sono solo alcuni degli aggettivi che sembrano rilegare la donna a un ruolo subordinato”. Nonostante lo stereotipo sia perpetrato nel mondo tecnologico, il confine tra irreale e reale è labile e rischia di instaurare delle associazioni negative anche nella quotidianità.
“Arrossirei, se potessi” è stato modificato in “non so come rispondere”, ma sembra non essere sufficiente. Le donne sono di fatto sottorappresentate nel settore tecnologico e questo influirebbe anche sugli stessi algoritmi che regolano i sistemi di intelligenza artificiale. “Se chi crea gli algoritmi è condizionato dagli stereotipi, li trasferirà anche negli algoritmi creati”, continua la Paracampo. C'è però una via di fuga. L'Unesco ha infatti indicato alcune possibili strade da percorre per evitare che tali bias vengano trasmessi dal team che crea la tecnologia di mercato alla tecnologia stessa. Innanzitutto, vietando il ricorso alle voci femminili e incentivando lo sviluppo di assistenti virtuali con un genere neutro, ma anche creando una certificazione per garantire la mancanza di pregiudizio degli algoritmi.