Bitcoin, crolla il valore. E anche il suo consumo energetico

21.6.2021
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Tra il 13 maggio e il 20 giugno, il bitcoin ha perso quasi il 30% del suo valore. Nello stesso periodo il consumo energetico annualizzato è sceso del 36%. Cosa succederà ora?
Con il crollo del bitcoin, osservato a partire dalla terza settimana di maggio, è diventato chiaro che il calcolo costi-benefici può ribaltarsi facilmente
La stretta di Pechino sui miner potrebbe rafforzare il trend in atto
Più il bitcoin sale di valore, più cresce l'opportunità economica di estrarre nuove unità attraverso il mining. Alimentare le macchine di calcolo necessarie, infatti, richiede parecchia energia elettrica e solo quando il “premio” riconosciuto ai miner è sostanzioso a sufficienza vale la pena, allora, pagare la bolletta.
Con il crollo del bitcoin, osservato a partire dalla terza settimana di maggio, è diventato chiaro che il calcolo costi-benefici può ribaltarsi facilmente. Per capire cos'è successo basta consultare i dati del Cambridge centre for alternative finance, la stessa fonte che Elon Musk aveva utilizzato a maggio per lanciare l'allarme sul consumo energetico del bitcoin.

Fra il 13 maggio e il 20 giugno la criptovaluta per eccellenza ha perso il 29,41% del suo valore. E nello stesso periodo, afferma Cambridge, il consumo energetico medio annualizzato della rete bitcoin è crollato del 36,36%, passando da 143 a 91 terawattora. Nel concreto, i dati andrebbero letti in questo modo: se il bitcoin avesse mantenuto per un anno il valore di mercato di inizio maggio, il mondo avrebbe consumato una quantità di energia elettrica aggiuntiva pari al fabbisogno annuo della Grecia o della Romania. Energia che, invece, sarà risparmiata, qualora i livelli di consumo attuali si mantenessero costanti di qui a un anno (ossia, se il prezzo del bitcoin non risalirà).

In sintesi: minore il valore bitcoin, minore il suo impatto ambientale. Poco prima del recente crollo, infatti, il consumo energetico della rete di mining era paragonabile a quello della Svezia e avrebbe occupato il 27esimo posto nella classifica dei Paesi più “energivori” del pianeta. Secondo le stime aggiornate al 20 giugno, invece, il bitcoin è scivolato in posizione 36, preceduto dal Kazakistan e seguito dalla Finlandia.
L'inefficienza energetica del bitcoin è scritta nel suo Dna e non può essere corretta, ha fatto notare Cambridge sul suo sito. Da un lato, la blockchain chiede ai membri della rete di verificare, con metodo democratico, l'aggiornamento della catena. Dall'altro, la difficoltà di calcolo necessaria a completare il mining assicura che nessun attore, singolo o di gruppo, possa unirsi per violare il registro della blockchain a suo vantaggio. La sicurezza di questo sistema, che finora non è mai stato alterato, sta proprio nella sua “inefficienza”. Questo, fino ad oggi, ha spinto i miner a orientare la propria attività là dove l'energia elettrica era più a buon mercato. Secondo gli ultimi dati aggiornati del Cambridge centre for alternative finance, oltre il 65% del mining avviene in Cina, un Paese il cui approvvigionamento energetico deriva in larga parte da combustibili fossili. L'Agenzia internazionale dell'energia ha calcolato che, nel 2019, oltre il 60% dell'energia cinese è stata prodotta dal carbone.
La Cina, però, non sarà più un Paese per miner. Diverse province, fra cui la Mongolia interna, il Sichuan e lo Yunnan hanno deciso di mettere al bando questo genere di attività, dando seguito a un orientamento politico che dallo scorso maggio ha, di fatto, dichiarato guerra alle criptovalute. La banca centrale cinese, infatti, ha contribuito in modo determinate al crollo del bitcoin decretando l'illegalità delle transazioni in criptovalute. Il 21 giugno, poi, la stessa Pboc ha intimato la società di pagamenti Alipay e alcune altre banche a uniformarsi all'invito di non offrire più alcun servizio basato su asset crittografici. Nello stesso giorno, il giornale controllato dal partito Comunista cinese, il Global Times, ha dichiarato che oltre il 90% della capacità di mining del Paese andrà incontro a una chiusura forzata.
Il risultato di questa stretta sui minatori non è ancora visibile nei dati del Cambridge centre for alternative finance. Una parte del mining cinese, secondo alcuni rapporti dei media americani, sarebbe pronto a trasferirsi in Texas. Comunque andrà, la chiusura della Cina al mining non potrà che ridurre l'impronta del Bitcoin sull'ambiente.
L'inefficienza energetica del bitcoin è scritta nel suo Dna e non può essere corretta, ha fatto notare Cambridge sul suo sito. Da un lato, la blockchain chiede ai membri della rete di verificare, con metodo democratico, l'aggiornamento della catena. Dall'altro, la difficoltà di calcolo necessaria a completare il mining assicura che nessun attore, singolo o di gruppo, possa unirsi per violare il registro della blockchain a suo vantaggio. La sicurezza di questo sistema, che finora non è mai stato alterato, sta proprio nella sua “inefficienza”. Questo, fino ad oggi, ha spinto i miner a orientare la propria attività là dove l'energia elettrica era più a buon mercato. Secondo gli ultimi dati aggiornati del Cambridge centre for alternative finance, oltre il 65% del mining avviene in Cina, un Paese il cui approvvigionamento energetico deriva in larga parte da combustibili fossili. L'Agenzia internazionale dell'energia ha calcolato che, nel 2019, oltre il 60% dell'energia cinese è stata prodotta dal carbone.
La Cina, però, non sarà più un Paese per miner. Diverse province, fra cui la Mongolia interna, il Sichuan e lo Yunnan hanno deciso di mettere al bando questo genere di attività, dando seguito a un orientamento politico che dallo scorso maggio ha, di fatto, dichiarato guerra alle criptovalute. La banca centrale cinese, infatti, ha contribuito in modo determinate al crollo del bitcoin decretando l'illegalità delle transazioni in criptovalute. Il 21 giugno, poi, la stessa Pboc ha intimato la società di pagamenti Alipay e alcune altre banche a uniformarsi all'invito di non offrire più alcun servizio basato su asset crittografici. Nello stesso giorno, il giornale controllato dal partito Comunista cinese, il Global Times, ha dichiarato che oltre il 90% della capacità di mining del Paese andrà incontro a una chiusura forzata.
Il risultato di questa stretta sui minatori non è ancora visibile nei dati del Cambridge centre for alternative finance. Una parte del mining cinese, secondo alcuni rapporti dei media americani, sarebbe pronto a trasferirsi in Texas. Comunque andrà, la chiusura della Cina al mining non potrà che ridurre l'impronta del Bitcoin sull'ambiente.