La filantropia strategica? si fa in tailleur
29.3.2022
Tempo di lettura: 2'
Quando si parla di una charity non episodica ma con caratteristiche di “imprenditorialità”, le donne sanno lavorare meglio. Per la loro attitudine a essere responsabili, efficienti, pragmatiche. E più generose: secondo una survey di Finer e Fondazione Italia Sociale su wealthy people - per il 95% con una ricchezza finanziaria tra 500mila e 1 milione di euro - la donazione media al femminile vale il doppio rispetto a quella erogata dagli uomoni.
Qualcuno la chiama filantropia strategica, concetto di derivazione anglosassone, qualcun altro la chiama filantropia evoluta. Quello che è certo è che nel tempo anche il modo di fare beneficienza è cambiato verso modelli più “imprenditoriali” e meno “episodici”, nei quali il la progettualità, la scalabilità, la tenuta nel tempo so- no ingredienti fondamentali. Questo tipo di filantropia è meglio espresso dalle donne che dagli uomini. Vuol dire che le donne sono migliori?
No, vuol dire che anche quando si parla del bene altrui le donne hanno il pallino di farlo in modo responsabile, efficiente, pragmatico. La generosità è di tutti, uomini e donne, la gestione imprenditoriale della filantropia sembra stare invece più sul versante femminile. Naturalmente, rispondendo spesso la grande filantropia a grandi famiglie industriali, non è raro che queste donne così determinate abbiano alle spalle studi prestigiosi ed esperienze imprenditoriali che le hanno formate al senso del “ritorno sull'investimento”, più prone a far cambiare direzione alle proprie ambizioni filantropiche, se necessario, che rinunciare all'efficacia dell'investimento. Ecco, forse la differenza è già nella semantica: le donne che fanno filantropia fanno investimenti per il benessere altrui, più che gesti di beneficienza. E forse, invece, gli uomini, pur convinti che il gesto sia necessario, lo assolvono per così dire nell'atto stesso della donazione.

“È sicuramente un dato di fatto”, dice Paola Pierri, Philanthropy Advisor, “Non mi piace fare differenze tra uomini e donne ma questa peculiarità è innegabile. Le donne sono più disposte a sviluppare un interesse genuino nelle cause che si assumono, trasformando spesso esperienze ed interessi personali in qualcosa che vada a beneficio degli altri. Tanto che anche le posizioni all'inter- no delle fondazioni sono spesso occupate dalle donne. È un'eredità antropologica che ci portiamo dietro da sempre quella che vuole che l'uomo procacci e la donna curi, da quando l'uno era cacciatore e l'altra nutrice. Forse è rimasto così. Ci vorrebbe un'intera genera- zione di persone libere di fare quello che davvero vogliono, senza interferenze sociali e culturali, per sapere se è davvero innato o se è invece il frutto di nostro adeguamento alle convenzioni. Resta però il risultato, un risultato qualitativo del quale mi faccio interprete con le stesse cautele con le quali parlo di numeri che in questo campo non hanno mai davvero valenza statistica. Troppo delicato il tema, troppo poche le ricerche davvero affidabili”. L'Italia, tra i Paesi europei più generosi dopo l'Inghilterra e la Germania, ci mette quindi del proprio anche in termini di investimento di genere. E a guardare i pochi dati disponibili sembra che le donne, oltre a gestire bene la materia, siano anche più generose. Finer e Fondazione Italia Sociale hanno pubblicato un report a gennaio 2022, basato su una survey condotta su 1.375 wealthy people - in maggioranza (95%) con una ricchezza finanziaria tra 500mila e 1 milione di euro, e in piccola parte (15%) con una ricchezza finanziaria tra 5 e 10 milioni di euro. Il 90% degli intervistati dice di aver sostenuto almeno un ente no profit nell'anno 2020, per il 36% con donazioni inferiori a 1.000 euro, il 25% tra 1.000 e 5.000 euro e solo il 6% sopra i 100 mila euro.
È qui che donazione e filantropia tendono a confondersi: l'sms solidale mandato dal divano di casa o la donazione di fine anno all'ente benefico preferito è davvero filantropia? La donazione mediana annuale del panel di wealthy people di Finer e Fondazione Italia Sociale è compresa tra 3.346 e 6.716 euro, ma le donne con la loro media di 6.716 euro superano del doppio gli uomini (3.358). Ma attenzione a prendere i numeri troppo sul serio, ammonisce Paola Pierri. “Quando si parla di denaro donato si tocca un tema molto delicato. Non si può escludere che qualcuno affermi di donare perché sarebbe brutto dire il contrario e noi non siamo in grado di ripulire i dati di questa possibile stortura, almeno finché in Italia non esisteranno statistiche e ricerche davvero affidabili, come succede nel mondo anglosassone dove il charity è di casa”.
E' d'accordo anche Urszula Swierczynska, Philanthropy and Impact Investing Advisor, che ha sviluppato esperienza all'estero prima di entrare nel mercato italiano della filantropia 7 anni fa. “Qui non esistono tanti studi indipendenti, come negli USA per esempio, dove la filantropia è molto diffusa spesso per la necessità di colmare le lacune di un welfare pubblico molto diverso da quello cui siamo abituati da noi. Sebbene tra i Paesi più generosi in Europa, l'Italia non ha ancora concepito la filantropia come parte del wealth management e troppo spesso è ancora una questione di cuore: se mi piace la causa, stacco l'assegno”. E' proprio su questo piano che si nota la differenza tra donne e uomini, ma anche tra senior e giovani.“Le donne sembrano più interessate al progetto che al gesto”, continua Urszula Swierczynska, “forse per questo i progetti che scelgono di sostenere rientrano spesso nell'ambito di un'attività imprenditoriale di famiglia. In molti casi il loro impegno filantropico scaturisce da interessi e valori personali. Per questo sono disposte ad investire, oltre al capitale finanziario, anche il proprio capitale umano, intellettuale e relazionale, scalando in qualche modo il progetto e, di fatto, profondendovi un impegno molto più grande. Molte di loro sono state manager e applicano logiche gestionali anche alla filantropia, coniugando cuore e mente per allargare l'impatto sociale delle loro attività a favore del prossimo. “I giovani, da parte loro – continua Paola Pierri - avendo quasi sempre studiato all'estero e per la maggior parte in paesi anglosassoni, si sono fatti espressione di quella cultura che prevede la filantropia come un'attività vera e propria. Portano esperienze di culture diverse e approfondiscono con le loro ricerche universitarie. Probabilmente saranno loro a far maturare il mercato filantropico italiano”. Per agevolare il percorso, Urszula Swierczynska, insieme con Simone Castella, ha scritto un Filantropia 2.0, istruzioni per l'uso, una vera e propria guida alla filantropia strategica, con l'obiettivo di aiutare sia i donatori sia i professionisti che li affiancano (wealth advisor, private banker, family officer) a orientarsi nel labirinto delle opzioni filantropiche e a strutturare il processo decisionale, dalla definizione della visione alla formulazione della strategia di investimetno, fino alla valutazione dei risultati.
E' d'accordo anche Urszula Swierczynska, Philanthropy and Impact Investing Advisor, che ha sviluppato esperienza all'estero prima di entrare nel mercato italiano della filantropia 7 anni fa. “Qui non esistono tanti studi indipendenti, come negli USA per esempio, dove la filantropia è molto diffusa spesso per la necessità di colmare le lacune di un welfare pubblico molto diverso da quello cui siamo abituati da noi. Sebbene tra i Paesi più generosi in Europa, l'Italia non ha ancora concepito la filantropia come parte del wealth management e troppo spesso è ancora una questione di cuore: se mi piace la causa, stacco l'assegno”. E' proprio su questo piano che si nota la differenza tra donne e uomini, ma anche tra senior e giovani.“Le donne sembrano più interessate al progetto che al gesto”, continua Urszula Swierczynska, “forse per questo i progetti che scelgono di sostenere rientrano spesso nell'ambito di un'attività imprenditoriale di famiglia. In molti casi il loro impegno filantropico scaturisce da interessi e valori personali. Per questo sono disposte ad investire, oltre al capitale finanziario, anche il proprio capitale umano, intellettuale e relazionale, scalando in qualche modo il progetto e, di fatto, profondendovi un impegno molto più grande. Molte di loro sono state manager e applicano logiche gestionali anche alla filantropia, coniugando cuore e mente per allargare l'impatto sociale delle loro attività a favore del prossimo. “I giovani, da parte loro – continua Paola Pierri - avendo quasi sempre studiato all'estero e per la maggior parte in paesi anglosassoni, si sono fatti espressione di quella cultura che prevede la filantropia come un'attività vera e propria. Portano esperienze di culture diverse e approfondiscono con le loro ricerche universitarie. Probabilmente saranno loro a far maturare il mercato filantropico italiano”. Per agevolare il percorso, Urszula Swierczynska, insieme con Simone Castella, ha scritto un Filantropia 2.0, istruzioni per l'uso, una vera e propria guida alla filantropia strategica, con l'obiettivo di aiutare sia i donatori sia i professionisti che li affiancano (wealth advisor, private banker, family officer) a orientarsi nel labirinto delle opzioni filantropiche e a strutturare il processo decisionale, dalla definizione della visione alla formulazione della strategia di investimetno, fino alla valutazione dei risultati.
(articolo tratto dal magazine We Wealth di marzo)