Quel principio di globalità retaggio del passato

10.8.2018
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Nella regolamentazione assicurativa è ancora in vigore una norma che contrasta con le prassi operative delle compagnie e che appare superata nel nuovo contesto normativo nato con la direttiva di Solvency II
Anche l'armadio dei regolatori, talvolta, contiene un guardaroba da rinnovare, in questo caso l'abito vecchio è proprio il principio di globalità. E' tutt'ora in vigore la Circolare Ivass n.162 del 24 ottobre 1991 in forza della quale il contratto di assicurazione del credito deve obbligatoriamente assumere “forma globale” e dunque, salvo ipotesi eccezionali, la relativa polizza deve essere relativa “a tutti i debitori dell'assicurato o a gruppi omogenei di essi”. Il principio di globalità rappresenta un vecchio brocardo della disciplina di settore, che trova la sua origine in una fonte amministrativa, precisamente nella Circolare n. 145/1960 dell'allora Ministero dell'Industria e Commercio, ribadita dalla Circolare n. 433/1979 , benché si fosse riconosciuto già ai tempi che “a distanza di 19 anni (...) la regolamentazione (...) risulta in alcuni casi superata dagli sviluppi manifestatisi (...) nell'economia nazionale, nella legislazione e nella pratica operativa”. L'Ivass, a sua volta confermò il principio di globalità, nella richiamata Circolare, non senza prima aver effettuato una ricognizione che rilevò, l'assenza di discipline analoghe negli altri ordinamenti dell'allora Comunità Europea (siamo infatti in epoca pre-Trattato di Maastricht).
A nulla valse, nemmeno la rilevante asimmetria rispetto al settore bancario in cui gli istituti di credito offrono tipologie di prodotti (ed hanno esigenze di tutela) sostanzialmente analoghe a quelle delle imprese di assicurazione senza essere però limitati da alcuna disposizione di contenuto simile.
Si è soliti affermare che il principio di globalità è funzionale ad impedire la cosiddetta “selezione avversa” da parte dell'assicurato, ossia l'attivazione della copertura assicurativa per le sole esposizioni debitorie con maggiore probabilità di default. Tale principio è stato dunque introdotto per evitare che il creditore possa fare ricorso all'assicurazione del credito selezionando crediti già connotati in partenza da particolare criticità, con effetti negativi per la funzionalità complessiva del sistema. A livello individuale, il principio risponderebbe alla necessità di prevenire condotte commerciali del creditore che, attraverso operazioni con soggetti normalmente non considerati attendibili, potrebbero determinare, attraverso la concentrazione dei rischi, l'inefficacia dei criteri attuariali e l'assunzione, da parte dell'assicuratore, di un rischio dipendente da comporta- menti discrezionali dell'assicurato.
Si è soliti parlare, a questo proposito, anche di “anti-selezione del rischio”, esercizio che normalmente si sostanzia nell'individuazione accurata dei rischi di insolvenza (cherry-picking). L'antidoto prefigurato (nel 1960, sic!) per disinnescare detto rischio era rappresentato dal carattere mandatory delle strutture contrattuali utilizzabili: accanto al dovere di astenersi dalla stipulazione di garanzie sul credito di carattere individuale, o che comunque consentano di attivare discrezionalmente la copertura assicurativa solo in relazione ai cosiddetti “cattivi pagatori”, è stato previsto il criterio alternativo dell'omogeneità dei debitori. Laddove, infatti, il contratto di assicurazione del credito non si riferisca a “tutti” i debitori dell'assicurato, la copertura deve essere relativa almeno a “gruppi omogenei” di essi. Tale previsione non è stata peraltro mai delineata con sufficiente precisione e non è pertanto pacifico a quale parametro o criterio l'omogeneità dovrebbe essere messa in relazione.
Il principio di globalità non sembra più coerente con la realtà attuale dominata dalla “selettività” nei processi di accesso al credito e dal capillare diffondersi di prodotti “customizzabili”, che possono cioè essere “cuciti addosso” alle esigenze specifiche del singolo contraente. A tale proposito vengono in mente, le svariate coperture in cui il rischio è per definizione selezionato in ingresso, quali i prodotti “all-risk” per impianti fotovoltaici o ancora di più i prodotti title insurance per i rischi da donazione nelle cessioni immobiliari (che quasi per definizione si fondano sulla selezione avversa, in quanto legati a dinamiche familiari note a priori al solo contraente). Nel mercato vita, il pensiero va naturalmente alla molteplicità di IBIPs e alle sempre maggiori possibilità di personalizzazione dei portafogli sottostanti delle polizze unit-linked (si pensi ai fondi dedicati), ma anche alla sempre maggiore modulabilità dei tradizionali prodotti protezione, di cui un esempio attuale sono le polizze ramo I sulla vita dei key-manager delle aziende. Ma al di là delle contestazioni di anacronismo, appaiono inconsistenze con gli strumenti moderni del diritto assicurativo e con lo stesso il dogma europeo del “level playing field” se è vero come sembra che questa limitazione è una peculiarità italiana).
A nulla valse, nemmeno la rilevante asimmetria rispetto al settore bancario in cui gli istituti di credito offrono tipologie di prodotti (ed hanno esigenze di tutela) sostanzialmente analoghe a quelle delle imprese di assicurazione senza essere però limitati da alcuna disposizione di contenuto simile.
Si è soliti affermare che il principio di globalità è funzionale ad impedire la cosiddetta “selezione avversa” da parte dell'assicurato, ossia l'attivazione della copertura assicurativa per le sole esposizioni debitorie con maggiore probabilità di default. Tale principio è stato dunque introdotto per evitare che il creditore possa fare ricorso all'assicurazione del credito selezionando crediti già connotati in partenza da particolare criticità, con effetti negativi per la funzionalità complessiva del sistema. A livello individuale, il principio risponderebbe alla necessità di prevenire condotte commerciali del creditore che, attraverso operazioni con soggetti normalmente non considerati attendibili, potrebbero determinare, attraverso la concentrazione dei rischi, l'inefficacia dei criteri attuariali e l'assunzione, da parte dell'assicuratore, di un rischio dipendente da comporta- menti discrezionali dell'assicurato.
L'anti-selezione del rischio
Si è soliti parlare, a questo proposito, anche di “anti-selezione del rischio”, esercizio che normalmente si sostanzia nell'individuazione accurata dei rischi di insolvenza (cherry-picking). L'antidoto prefigurato (nel 1960, sic!) per disinnescare detto rischio era rappresentato dal carattere mandatory delle strutture contrattuali utilizzabili: accanto al dovere di astenersi dalla stipulazione di garanzie sul credito di carattere individuale, o che comunque consentano di attivare discrezionalmente la copertura assicurativa solo in relazione ai cosiddetti “cattivi pagatori”, è stato previsto il criterio alternativo dell'omogeneità dei debitori. Laddove, infatti, il contratto di assicurazione del credito non si riferisca a “tutti” i debitori dell'assicurato, la copertura deve essere relativa almeno a “gruppi omogenei” di essi. Tale previsione non è stata peraltro mai delineata con sufficiente precisione e non è pertanto pacifico a quale parametro o criterio l'omogeneità dovrebbe essere messa in relazione.
Selettività e customizzazione
Il principio di globalità non sembra più coerente con la realtà attuale dominata dalla “selettività” nei processi di accesso al credito e dal capillare diffondersi di prodotti “customizzabili”, che possono cioè essere “cuciti addosso” alle esigenze specifiche del singolo contraente. A tale proposito vengono in mente, le svariate coperture in cui il rischio è per definizione selezionato in ingresso, quali i prodotti “all-risk” per impianti fotovoltaici o ancora di più i prodotti title insurance per i rischi da donazione nelle cessioni immobiliari (che quasi per definizione si fondano sulla selezione avversa, in quanto legati a dinamiche familiari note a priori al solo contraente). Nel mercato vita, il pensiero va naturalmente alla molteplicità di IBIPs e alle sempre maggiori possibilità di personalizzazione dei portafogli sottostanti delle polizze unit-linked (si pensi ai fondi dedicati), ma anche alla sempre maggiore modulabilità dei tradizionali prodotti protezione, di cui un esempio attuale sono le polizze ramo I sulla vita dei key-manager delle aziende. Ma al di là delle contestazioni di anacronismo, appaiono inconsistenze con gli strumenti moderni del diritto assicurativo e con lo stesso il dogma europeo del “level playing field” se è vero come sembra che questa limitazione è una peculiarità italiana).
- Innanzitutto, il mercato delle garanzie sul credito (con particolare riferimento ai crediti commerciali, al credito all'esportazione, alla vendita a rate, al credito ipotecario e al credito agricolo), in un sistema integrato quale quello Europeo, non appare più così tanto connotato da elementi di pericolosità tali da legittimare tout court limitazioni alla libertà negoziale privata. Lo stesso Fmi segnala che il rischio di shock sistemici deriva principalmente dalla misura con cui le compagnie di assicurazione sono oggi esposte ai movimenti dei prezzi degli asset a copertura delle proprie riserve tecniche (asset illiquidi, fluttuazioni dei prezzi, mercati emergenti, insolvenza delle controparti) e non tanto, e non più, dalle condotte degli assicurati, come avveniva negli anni '60in un mercato di fatto locale. Tali rischi non sono affrontabili, né gestibili con misure restrittive dei comportamenti contrattuali, ma con efficaci politiche di carattere macroprudenziale, come peraltro recentissimamente messo in luce recentemente da Eiopa ("Systemic risk and macroprudential policy in insurance", 2018).
- Da un punto di vista microprudenziale, non va dimenticato che se è vero che il principio di globalità si colloca nell'alveo delle stesse norme di diritto comune che mirano a prevenire l'alterazione dell'alea contrattuale, tale approccio è (e di molto) precedente all'introduzione di quella pietra miliare che è la Direttiva Solvency II. E' una riforma radicale che non abbraccia le sole metodologie di calcolo del requisito patrimoniale, ma riguarda l'intero sistema di vigilanza prudenziale. L'insieme dei rischi cui è esposta un'impresa è considerato dal lato dell'attivo e del passivo e tiene conto delle interconnessioni fra riserve tecniche, attivi a copertura e requisiti di patrimonializzazione, nonché della qualità dei controlli interni (risk management soprattutto) delle imprese. Mentre nel passato l'esigenza giustificatrice del principio di globalità era quella di prevenire la sottrazione del rapporto rischio-premio al controllo della compagnia, con l'attuale sistema risk-based l'interesse primario da difendere diventa quello dell'impresa a liberamente contrarre secondo le proprie politiche di sottoscrizione, definite sulla base delle proprie capacità di assorbimento delle perdite.
- Da un punto di vista delle strutture contrattuali, infine, il principio di globalità sembra non tenere conto della possibilità di fare ricorso allo strumento del rating. La Circolare 162 è dunque una forte limitazione ad un mercato sempre più orientato verso strutture distributive che consentono di effettuare una selezione all'ingresso delle possibili controparti dei propri clienti, ampliando il modello di business, senza rimanere soggetti a vincoli non più necessari.