Credito d’imposta su dividendi esteri: via libera dalla Cassazione

Domenico Ponticelli
Domenico Ponticelli, Damiano Di Vittorio
11.1.2023
Tempo di lettura: 3'
La Cassazione apre al foreign tax credit di matrice convenzionale sui dividendi di fonte estera assoggettati obbligatoriamente a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o a imposizione sostitutiva in Italia

Con la sentenza n. 25698 del 9 settembre 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata in favore del riconoscimento, a certe condizioni, del credito d’imposta per le imposte pagate all’estero sugli utili distribuiti da una società estera a favore di una persona fisica residente in Italia in relazione a una partecipazione non qualificata dalla stessa detenuta, sebbene gli stessi siano stati assoggettati a ritenuta a titolo di imposta o a imposta sostitutiva nel nostro Paese.


Tale pronuncia, la prima a quanto consta, assume particolare rilevanza in quanto contribuisce alla soluzione di un problema di doppia imposizione concernente una fattispecie reddituale - quella dei dividendi di fonte estera percepiti da persone fisiche residenti al di fuori del regime di impresa - di non infrequente riscontro pratico. 


Dividendi di fonte estera e doppia imposizione 

In generale, tali dividendi vengono assoggettati a tassazione mediante ritenuta a titolo d’imposta del 26% da applicarsi sul relativo ammontare “al netto” della ritenuta estera (cosiddetto “netto frontiera”) a cura dell’intermediario che interviene nella riscossione del provento ex art. 27, co. 4, Dpr. n. 600/1973 ovvero, in assenza di intermediario, a imposta sostitutiva della medesima misura (applicata, in tal caso, sull’ammontare lordo del provento, posto che l’Agenzia di fatto nega di operare l’imposta sul netto frontiera) da liquidare direttamente a cura del contribuente nella propria dichiarazione dei redditi ex art. 18 del Tuir. In entrambi i casi, è preclusa al contribuente la possibilità di chiedere l’applicazione dell’imposizione ordinaria con il concorso, cioè, di detti redditi alla formazione del proprio reddito complessivo imponibile.


Tali dividendi sono tassati anche nel Paese di residenza della partecipata al momento della loro distribuzione, con un prelievo alla fonte pari, nella maggior parte dei casi e in ragione delle disposizioni convenzionali applicabili, al 15%. La tassazione nello Stato della fonte, tuttavia, avviene in maniera diversa laddove - come nel caso affrontato dalla Cassazione - gli utili oggetto di distribuzione provengano da una società costituita in forma di partnership (analoga alle società di persone domestiche): in tal caso, infatti, il socio residente generalmente assolve l’imposta estera nel momento (antecedente) della produzione del reddito da parte della società di persone non residente che gli viene imputato direttamente e pro-quota, cosicché nessun prelievo alla fonte viene ivi operato al momento (successivo) della distribuzione dei dividendi. 


Di tutta evidenza, quindi, la doppia imposizione subita dal socio italiano che: 

  • nello Stato di residenza della partecipata, sconta una ritenuta alla fonte in caso di società estera “opaca”, ovvero assolve direttamente le imposte in base al reddito imputatogli pro-quota in ipotesi di società estera “trasparente”; e
  • in Italia, sconta in ogni caso una ritenuta in ingresso ovvero, in assenza di intermediario residente che interviene nel pagamento, un’imposta sostitutiva del 26%.

Doppia imposizione che, tuttavia, non può essere eliminata mediante il ricorso al meccanismo del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero previsto dalla normativa interna (ex art. 165 Tuir), in quanto l’applicazione di tale disciplina presuppone il concorso dei redditi di fonte estera alla formazione del reddito complessivo imponibile del contribuente; condizione, questa, che non si verifica qualora detti redditi, come nel caso dei dividendi esteri, siano assoggettati a tassazione mediante ritenuta alla fonte ovvero imposta sostitutiva. 


Da notare peraltro che non consentire di applicare le imposte sul netto frontiera anche in dichiarazione crea una discriminazione ingiustificata, non fondata su alcuna differenza sostanziale, tra i contribuenti residenti in Italia che riscuotono i redditi di capitale esteri per il tramite di intermediari residenti e quelli che non se ne avvalgono. L’ammontare del reddito imponibile in capo all’investitore residente derivante da una certa tipologia di investimento (come il possesso di titoli esteri), espressione della sua capacità contributiva, non dovrebbe mutare, infatti, a secondo del metodo di riscossione dei proventi: l’applicazione dell’aliquota del 26% sull’importo lordo indicato in dichiarazione (per disposizione di legge obbligatoria e non per scelta del contribuente) determina un trattamento estremamente penalizzante per l’investitore, che potrebbe essere evitato consentendo, per ridurre l’impatto della doppia imposizione economica che viene a generarsi, la tassazione sul “netto frontiera” anche in sede di dichiarazione dei redditi. 


Peraltro, la Corte di Giustizia della Ue ha già chiarito che non è compatibile con il diritto della Ue la normativa di uno Stato membro in base alla quale i contribuenti ivi residenti sono soggetti a un regime fiscale più oneroso, sugli interessi o dividendi provenienti da collocamenti o da investimenti effettuati in un altro Stato membro, qualora non abbiano scelto di riscuotere tali redditi attraverso un intermediario residente.

Il principio di diritto sancito dalla Cassazione 

In tale contesto si inserisce dunque la pronuncia della Corte di Cassazione. Nello specifico, la fattispecie oggetto della sentenza verteva sul caso di un contribuente persona fisica residente in Italia che, nel periodo d’imposta 2005, percepiva utili distribuiti da una partnership di diritto statunitense (entità fiscalmente “trasparente” negli Usa), assoggettandoli in Italia a imposta sostitutiva con aliquota del 12,5% in ragione della classificazione della partecipazione detenuta come “non qualificata” ai sensi delle disposizioni domestiche all’epoca vigenti. Il contribuente, tuttavia, non versava in effetti l’imposta sostitutiva poiché scomputava da questa l’imposta già pagata a titolo definitivo all’estero ritenendo applicabili le previsioni di cui all’art. 23(3) della Convenzione Italia-Stati Uniti recante la disciplina del credito d’imposta per le imposte pagate all’estero. Di qui la contestazione, mossa dall’Agenzia, che riteneva invece non spettante il credito d’imposta, in quanto i dividendi erano soggetti a imposizione sostitutiva in Italia e, quindi, non concorrevano alla formazione del reddito complessivo del percettore come richiesto dall’art. 165 del Tuir. 


La Cassazione, nel formulare il proprio giudizio, sancisce il principio di diritto in base al quale ove l’assoggettamento a imposizione dei redditi di capitale di fonte estera, mediante ritenuta a titolo d'imposta o imposta sostitutiva, avvenga obbligatoriamente – senza cioè la possibilità per il contribuente di optare per la tassazione ordinaria come nel caso, appunto, dei dividendi esteri – l’imposta sul reddito pagata all’estero deve considerarsi detraibile dall’imposta italiana. Ciò in quanto la convenzione contro le doppie imposizioni rilevante nel caso specifico (Italia-Stati Uniti), dopo aver sancito l’obbligo per l’Italia di riconoscere il credito d’imposta, circoscrive l’inapplicabilità di tale rimedio ai casi in cui l’elemento di reddito venga assoggettato a imposizione nel nostro Paese mediante ritenuta a titolo d’imposta (ovvero, analogamente, ad imposizione sostitutiva) “su richiesta del beneficiario del reddito”


Ciò non avviene, evidentemente, per i dividendi esteri percepiti da persone fisiche residenti in Italia non in regime d’impresa, posto che per gli stessi la tassazione mediante ritenuta a titolo d’imposta o imposizione sostitutiva avviene, come sopra ricordato, in via obbligatoria, senza possibilità per il contribuente di optare per la tassazione ordinaria. 


La tesi della Corte troverebbe implicitamente riscontro nel testo di alcuni trattati recentemente modificati o rinnovati (vedasi, ad esempio, Hong Kong, Malta e Singapore) ove la locuzione citata è stata emendata con l’aggiunta della parola “anche” prima di “su richiesta del beneficiario del reddito”, ciò essendo rivelatore, a parere della Cassazione, del fatto che quando l’Italia abbia voluto escludere la fruizione del credito d’imposta a prescindere dall’origine (obbligatoria o facoltativa) della tassazione sostitutiva, lo abbia previsto espressamente. 


La portata del principio – che ricostruisce correttamente il rapporto tra disciplina convenzionale e norma interna, riconoscendo la prevalenza della prima sulla seconda – è potenzialmente dirompente posto che gran parte delle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia consentirebbero, presentando la medesima locuzione, il riconoscimento del credito d’imposta per la fattispecie reddituale in commento ( ad esempio, le convenzioni stipulate con: Albania, Argentina, Belgio, Canada, Croazia, Danimarca, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Lussemburgo, Paesi Bassi). 


Richieste di rimborso e probabile contenzioso 

Per il passato, pertanto, la pronuncia della Cassazione sembra aprire il campo alla presentazione di apposite richieste di rimborso all’amministrazione finanziaria, per ottenere la restituzione delle maggiori imposte che, in base alle disposizioni convenzionali applicabili, risultano indebitamente versate. 


Per il futuro, parimenti, l’unica strada al momento percorribile sembra essere quella della tassazione “piena” (senza scomputo, cioè, del credito d’imposta) e della successiva richiesta di rimborso dell’eccedenza di imposta che non sarebbe stata assolta in caso di applicazione diretta del foreign tax credit convenzionale. Ciò in quanto, da un lato, non è previsto nei modelli dichiarativi uno specifico campo che consenta l’operazione, allo stato possibile solamente per quei redditi di fonte estera che concorrono alla formazione del reddito complessivo del contribuente, e, dall’altro, appare impraticabile (oltre che non sorretta da previsioni normative) l’applicazione del tax credit convenzionale direttamente da parte dell’intermediario finanziario italiano che intervenga nella riscossione operando quale sostituto d’imposta. 


Tali istanze di rimborso dovranno in ogni caso essere accompagnate da documentazione idonea a dimostrare il pagamento, in via definitiva, delle imposte estere, presupposto indefettibile per il riconoscimento del credito d’imposta anche in base alle disposizioni convenzionali. La prova può essere fornita, secondo le indicazioni offerte dalla stessa Cassazione nella sentenza in commento, utilizzando, oltre alla dichiarazione dei redditi presentata nel Paese estero (qualora questo adempimento sia ivi previsto), una certificazione rilasciata dall'autorità fiscale di tale Paese che attesti il predetto pagamento ovvero, in alternativa, l'eventuale certificazione rilasciata dal soggetto che ha corrisposto i redditi di fonte estera, accompagnata o dalla ricevuta di versamento delle imposte pagate all'estero da tale soggetto o dall'indicazione e prova del fatto che, in base alla normativa straniera, lo stesso soggetto è obbligato al medesimo versamento. 


Nell’attesa di eventuali successive pronunce che consolidino l’orientamento della Cassazione, appare molto probabile che alla richiesta di rimborso faccia seguito il diniego (espresso o tacito) da parte dell’amministrazione finanziaria con la conseguente necessità di instaurare un contenzioso per far valere, in giudizio, la propria pretesa. 


In ogni caso, il processo di determinazione del credito d’imposta spettante e, di riflesso, delle somme da chiedere a rimborso appare come uno degli aspetti più critici dell’intero procedimento. 


Criticità per le distribuzioni da partnership estere 

Ebbene, nel caso di distribuzioni da società estera opaca occorrerà calcolare l’imposta sostitutiva sul dividendo lordo e da questa scomputare il credito d’imposta spettante, pari al minore tra (i) la ritenuta estera, da determinare nei limiti della convenzione contro le doppie imposizioni applicabile al caso specifico e (ii) l’imposta italiana ottenendo in tal modo l’imposta netta effettivamente dovuta da porre a confronto con l’imposta versata al fine di determinare, per differenza, l’importo da chiedere a rimborso. 


Maggiormente critico il procedimento ove invece, come nel caso oggetto della sentenza in commento, gli utili oggetto di distribuzione provengano da una entità estera considerata fiscalmente “trasparente” nel proprio Paese di residenza. Infatti, per tale fattispecie reddituale – nella sentenza in commento implicitamente assimilata, in linea con l’orientamento dell’Agenzia delle entrate, a quella dei dividendi in senso proprio, ossia quelli distribuiti da soggetti “opachi” – appare particolarmente problematico l’accreditamento delle imposte estere poiché esso non ha ad oggetto una ritenuta estera quanto, piuttosto, le imposte estere pagate direttamente dal socio residente sulla quota di reddito della società estera partecipata imputatagli per trasparenza. 


Sul punto l’amministrazione finanziaria nella Circolare 5 marzo 2015, n. 9/E, dopo aver chiarito che il reddito che il socio residente ritrae dalla partecipazione in una società di persone estera viene fiscalmente qualificato come “reddito di capitale” (i.e., dividendo) in ragione della qualifica di soggetto passivo IRES attribuita alla stessa ai sensi della normativa domestica che stabilisce, ai fini del trattamento fiscale interno, una finzione di “opacità” per le entità estere trasparenti (ex art. 73, co. 1, lett. d) del TUIR), equipara in via interpretativa le imposte estere pagate dal socio residente sulla quota di utili a lui spettante alle imposte pagate dalla società estera che vanno, conseguentemente, scomputate dall’ammontare lordo dell’utile al medesimo distribuito ai fini della tassazione in Italia (con aliquota del 26%). 


Sulla base di tale fictio iuris, pertanto, il dividendo distribuito da una partnership estera da tassare in Italia risulterebbe costituito, al pari dei dividendi distribuiti da società opache, da una “grandezza netta” che tiene conto cioè delle imposte pagate all’estero sugli utili oggetto di distribuzione. In altri termini, se la società estera distribuisce l’utile dell’anno T, il dividendo rilevante fiscalmente in Italia in capo al socio è da quantificare al netto delle imposte pagate, in via definitiva, sul reddito che gli è stato imputato per trasparenza nella medesima annualità (anno T). Se la distribuzione è parziale, vale a dire se il dividendo distribuito rappresenta solo una quota dell’utile maturato, le imposte estere da scomputare dal dividendo devono essere proporzionalmente ridotte. 


Senonché, seguendo tale impostazione non potrebbe più parlarsi di imposta estera “accreditabile” – dato che, come detto, l’imposta pagata dal socio andrebbe considerata fittiziamente come imposta della società – ma piuttosto di imposta italiana versata in eccesso da chiedere a rimborso (in quanto, ad esempio, applicata mediante ritenuta dall’intermediario sulla totalità del provento oggetto di distribuzione). 


Nel caso della sentenza annotata la Cassazione, riconoscendo la possibilità di accreditare l’imposta estera pagata dal socio, pare implicitamente disconoscere la modalità di tassazione descritta dall’Agenzia nella citata Circolare e suggerire piuttosto una tesi per cui il dividendo estero andrebbe dapprima tassato integralmente in Italia – al lordo, cioè, dell’imposta estera pagata dal socio – per poi accreditare l’imposta pagata all’estero dal socio in proporzione all’utile distribuito e nei limiti dell’imposta italiana. 


Posto che la pronuncia in commento non si sofferma specificamente sul punto – giacché il giudizio verteva principalmente, come detto, sul rapporto fra norma interna e disciplina convenzionale in materia di credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero e non sulla modalità di tassazione del dividendo – ne deriva un quadro d’insieme incerto su cui si auspica venga al più presto fatta definitivamente chiarezza, eventualmente anche mediante un intervento normativo. 


(Articolo scritto in collaborazione con Damiano Di Vittorio - Gattai, Minoli, Partners)

Domenico Ponticelli
Domenico Ponticelli, Damiano Di Vittorio
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Partner dello studio legale Gattai, Minoli, Partners, Domenico Ponticelli è specializzato in fiscalità internazionale e dei prodotti finanziari, fondi di private equity e real estate, operazioni di finanza straordinaria ed M&A e contenzioso tributario. Membro del Tax & legal committee Aifi è inoltre relatore in seminari e convegni nazionali e autore di pubblicazioni su tematiche di diritto tributario e internazionale.

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