Azionariato concentrato? Meno rischi e più risultati

Rita Annunziata
29.3.2021
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Secondo un nuovo paper realizzato dall'Università Bocconi in collaborazione con Equita, l'assetto proprietario delle imprese italiane è caratterizzato da un alto grado di concentrazione e dalla presenza di azionisti di controllo. Un quadro che può avere un effetto positivo sui risultati aziendali

La presenza di un azionista di controllo nelle imprese quotate determina un'associazione positiva con il prezzo e negativa con il beta (indice di una minore rischiosità)

La percentuale di voto detenuta dalla categoria di azionisti indicati come “persone fisiche” risulta positivamente associata al prezzo, al roe, al rona e alla variazione dell'organico

Stefano Caselli: “Parlare di proprietà e di performance significa ragionare su come le aziende possano contribuire alla crescita del pil. Ecco sei raccomandazioni di policy”

Un azionariato concentrato non rappresenta necessariamente un ostacolo in termini di performance. Anzi. Secondo un nuovo paper realizzato dal Centro di ricerca Baffi Carefin dell'Università Bocconi in collaborazione con Equita e presentato in occasione del webinar “Shareholders' ownership characteristics of italian listed companies: do they really matter for performance?”, la presenza di un imprenditore o di una famiglia proprietaria può avere un impatto positivo sui risultati aziendali.
L'obiettivo dello studio è stato quello di analizzare se la struttura proprietaria delle imprese tricolori quotate abbia dei riflessi rilevanti sulla performance aziendale e, più specificatamente, quali indicatori di performance siano associati alle caratteristiche degli azionisti che detengono più del 2% dei diritti di voto. Nel dettaglio, sono state identificate sette classi di azionisti (associazione-fondazione, family office, istituzione finanziaria, Stato, gruppo industriale, persona fisica e trust) e cinque indicatori di performance, due di mercato (il prezzo e il beta dell'azione) e tre di crescita (return on equity, return on net asset e variazione annuale del numero di dipendenti).

“Abbiamo utilizzato un campione piuttosto ricco che si basa sui dati dell'azionariato estratti dagli archivi Consob, prendendo in considerazione il periodo dal 2007 al 2019, in grado di poter cogliere sia la crisi Lehman sia la crisi del debito sovrano nell'area euro tra il 2011 e il 2012. Poi, abbiamo incrociato i dati dell'azionariato con i dati economico-finanziari attraverso la banca dati di Refinitiv e abbiamo analizzato un campione di 295 imprese, di cui 25 quotate per tutto il periodo di riferimento”, spiega Stefano Gatti del Centro Baffi Carefin dell'Università Bocconi. “Quello che emerge fin da subito è una struttura proprietaria delle imprese italiane fortemente concentrata (il 56% delle aziende ha almeno un azionista di controllo), una significativa presenza di famiglie e persone fisiche in posizioni rilevanti in termini di azionariato (detengono in media il 12 e il 24% dei diritti di voto rispettivamente) e in generale una scarsa presenza di investitori istituzionali internazionali”.
Sulla base di queste evidenze, la prima parte dell'analisi ha dimostrato come la percentuale di voto detenuta dalla categoria “persona fisica” sia positivamente associata al prezzo, al roe, al rona e alla variazione dell'organico. Per la categoria “family office” l'associazione positiva riguarda unicamente il prezzo, mentre per la categoria “istituzione finanziaria” unicamente il rona. Chiude il cerchio la percentuale di voti detenuti dal “gruppo industriale” (positivamente associata al prezzo e alla variazione annuale del numero di dipendenti), mentre per le restanti tre categorie non si evidenziano correlazioni significative.

Nella seconda parte dell'analisi, invece, i ricercatori hanno spostato il focus sul modo in cui un investitore chiave (definito come “fulcrum shareholder”) possa a sua volta influenzare i risultati. Anche in questo caso, l'azionista “persona fisica” torna a essere positivamente associato a prezzo, roe, rona e variazione dell'organico. Per la categoria “family office” si segnala nuovamente il prezzo accompagnato dalla variazione dei dipendenti, mentre per il “gruppo industriale” l'associazione positiva è con il beta (indice, dunque, di una maggiore rischiosità del titolo), con il prezzo e con la variazione dell'organico. “Quanto lo Stato possiede più del 20%, l'associazione è positiva con il prezzo. Infine, quando un trust è fulcrum shareholder, l'associazione è positiva con il prezzo e con la variazione di dipendenti”, si legge nell'analisi. Nessuna correlazione significativa, in questo caso, per gli azionisti “associazione” e “istituzione finanziaria”.

Di conseguenza, come anticipato, un azionariato concentrato non è necessariamente un fattore negativo ai fini della performance. “La presenza di un imprenditore o di una famiglia proprietaria ha un effetto positivo sui risultati aziendali, coerentemente con quanto affermato da studi precedenti che dimostrano come un azionariato stabile nel tempo sia fondamentale per ridurre i costi di agenzia e per garantire al management il supporto necessario per il perseguimento di strategie di lungo periodo”, si legge ancora nello studio. Ma oggi, interviene Stefano Caselli, prorettore per gli affari internazionali dell'Università Bocconi, il tema deve essere visto in termini ancora più ampi. “Parlare di proprietà e di performance significa ragionare su come le aziende possano contribuire alla crescita del pil e, dunque, su come utilizzare le risorse finanziarie senza gravare sulla componente del debito pubblico e sulla componente delle banche. Ma in che modo la grande quantità di risparmio disponibile può essere trasferita all'interno del mercato finanziario? A mio avviso, occorre riconoscere il mercato finanziario come uno strumento di politica economica per il nostro Paese. E, se crediamo a questo assunto, è possibile identificare sei raccomandazioni di policy: capitalizzare le imprese, incentivare l'utilizzo dei risparmi, intervenire sul capitale delle aziende di maggiori dimensioni e su quelle ad alto potenziale di sviluppo, ancorare il mantenimento della garanzia statale a fronte della concessione del credito bancario a una logica di capitalizzazione, accrescere la dimensione delle imprese e incentivare il reshoring”.
Giornalista professionista, è laureata in Politiche europee e internazionali. Precedentemente redattrice televisiva per Class Editori e ricercatrice per il Centro di Ricerca “Res Incorrupta” dell’Università Suor Orsola Benincasa. Si occupa di finanza al femminile, sostenibilità e imprese.

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