La crisi energetica? Un'occasione per liberarsi dall'"old" energy
Se dobbiamo avere una crisi energetica, è meglio averla oggi piuttosto che negli anni Settanta. Adesso che l’economia vacilla sotto la sferza degli alti prezzi dell’energia, questa considerazione sembra un po’ troppo consolatoria. Ma è vera. E la ragione sta nel grafico, che descrive l’intensità di petrolio dell’attività economica del mondo: cioè a dire, quanto barili ci vogliono per produrre una unità di Pil reale.
Sempre meno dipendenti dal petrolio
Come si vede, non tutto il male viene per nuocere. A partire dagli anni Settanta – gli ultracinquantenni si ricorderanno le ‘domeniche a piedi’ dopo la prima crisi petrolifera – si cominciò a risparmiare petrolio, e la tendenza fu confermata dopo la seconda crisi petrolifera del 1979. Da allora è stato un continuo risparmio. Da un lato il comparto dei servizi è andato crescendo nella composizione del Pil, e il settore terziario consuma meno petrolio rispetto all’industria. Dall’altro lato, il progresso tecnologico – auto più efficienti, isolamento termico degli edifici, tecniche di produzione meno energivore – una volta avviato, non si è fermato, e siamo arrivati alla crisi presente con la più bassa intensità petrolifera dell’ultimo mezzo secolo. E il ricatto russo su gas e petrolio non potrà che dare un’ulteriore spinta verso l’affrancamento dai combustibili fossili (che era già in corso per ragioni ambientali). Questi combustibili fossili sono l’export principale della Russia, che ha sofferto della cosiddetta ‘maledizione delle materie prime’: cioè a dire, la loro abbondanza può trasformare una benedizione in maledizione, nel senso che dà una falsa sicurezza al Paese, che si adagia in quella bambagia e non si cura di sviluppare e competere nei campi tipici di una moderna economia diversificata. Questa è la ragione principale che conferma quello che avrebbe detto Talleyrand a proposito dell’invasione russa in Ucraina: “peggio di un crimine, un errore”.
L'effetto del ricatto russo
Beninteso, il prezzo del petrolio ha conosciuto non solo impennate, ma anche brusche cadute. Scrivevamo, su “Il Sole-24 Ore”, a fine 2014: «Il crollo del prezzo del petrolio è un fatto ormai strutturale, dato il balzo dell’offerta permes- so dalle nuove tecnologie di estrazione di petrolio da scisti. Per i pozzi già aperti, con investimenti già ammortizzati, il costo marginale è basso e l’estrazione è conveniente quasi a qualsiasi prezzo: lo sbilancio fra offerta e domanda quindi continuerà. Per la lotta all’inquinamento un petrolio meno caro non è cosa buona, dato che se ne consuma di più e aumenta il vantaggio di costo rispetto alle energie rinnovabili. Ma il problema principale per l’economia mondiale è anche qui politico. Come reagirà la Russia di fronte a una caduta del prezzo del greggio che minaccia recessione economica e malcontento politico, in una cleptocrazia che già vacilla sotto il peso delle sanzioni e che è invischiata nel problema ucraino?». Sanzioni? Problema ucraino? Sì, il problema ucraino viene da lontano, e otto anni fa la Russia aveva annesso di prepotenza la Crimea e l’Occidente l’aveva posta sotto sanzioni. Il grafico mostra l’intensità petrolifera, ma non quella relativa al gas naturale, che è in questo momento il problema principale per l’economia europea. Qui la riduzione dell’intensità è stata probabilmente meno forte rispetto al petrolio, dato che il gas è meno inquinante (fatta 100 l’emissione di CO2 del carbone, il petrolio dà 80 e il gas 59) e quindi ha costituito una fetta crescente di una torta decrescente. Ma anche qui le conseguenze del ricatto russo si faranno sentire. Il gas emette meno CO2 di altri combustibili fossili, ma certo molto più delle rinnovabili e la tendenza alla riduzione dell’intensità ‘gasiera’ continuerà, non solo per ragioni ambientali, ma anche perché il principale fornitore mondiale di gas naturale ha dimostrato di essere inaffidabile.
(articolo tratto dal magazine We Wealth di ottobre)