L'euro compie 20 anni: alti e bassi di un grande esperimento politico

Nel corso di questi vent'anni l'euro è stato messo sotto scacco dai mercati e successivamente “salvato” dalla svolta di Mario Draghi; è stato oggetto di forti campagne a favore del suo smantellamento, in seguito andate a scemare un po' ovunque in Europa
Secondo il senior fellow di Bruegel, Jean Pisani-Ferry “l'euro può generare indirettamente un senso di comunità; anche se è stata la paura, e non l'amore, ad aver finora impedito ai Paesi di abbandonarlo, in qualche modo il risultato è lo stesso”
Un breve ritratto di questi 20 anni di euro, che hanno confermato come il progetto politico che l'ha originato sia stato più forte delle crisi
Stilare un bilancio di questi vent'anni di euro richiederebbe un approccio rigoroso, nel quale le considerazioni politiche, connaturate al progetto, andrebbero scisse dai suoi risultati economici.
Al momento del cambio, fu detto che adottare la stessa moneta avrebbe favorito i commerci fra i vari Paesi aderenti. Sui risultati strettamente economici dell'euro, anche gli studiosi più entusiasti non possono portare evidenze di grandi vantaggi. Jean Pisani-Ferry, senior fellow del think-tank europeista Bruegel, ricorda come lo studio più aggiornato che la Bce ha condotto sull'incremento degli scambi transfrontalieri in seguito all'adozione dell'euro siano stati nell'ordine del 5%. “Rimane un piccolo che da solo non sarebbe valso lo sforzo”, ha affermato l'economista in un articolo pubblicato su Project Syndacate. Ancora oggi “due regioni all'interno dell'Europa, in media, hanno scambi commerciali sei volte inferiori se non appartengono allo stesso Paese”.
Il capitolo più drammatico della storia dell'euro, la crisi del 2011, è stato indubbiamente rafforzato dall'effetto che l'introduzione della moneta unica avuto sul credito transfrontaliero. Come afferma Pisani-Ferry, “nei primi anni, le banche hanno esteso il credito all'estero, spesso in modo sconsiderato, fino a quando la crisi dell'euro, una decina di anni fa, ha innescato una precipitosa ritirata dietro i confini nazionali”.
Per i Paesi più deboli dell'Eurozona adottare la moneta unica significò azzerare il rischio di cambio, incoraggiando la crescita del debito privato finanziato da banche di altri Paesi europei. Nel momento in cui lo squilibrio fu individuato, i mercati iniziarono a scommettere sull'uscita dall'euro di Paesi come la Grecia. L'Eurozona di allora, priva di strumenti per fronteggiare queste crisi, lasciò soli gli stati con il problema di tassi d'interesse sul debito sempre più elevati. Allora, fu detto che la speculazione era stata motivata dagli elevati debiti pubblici, ma realtà era ben più complessa: si trattava anche della mancanza di adeguate “reti di sicurezza” in grado di convincere i mercati che l'euro era veramente qualcosa di veramente “irreversibile”. Una parola che, da allora, è stata pronunciata innumerevoli volte dal presidente della Bce Mario Draghi. Per convincere i mercati sul fatto che i Paesi membri avrebbero onorato in euro (e non in lire o dracme svalutate) i loro debiti, la Bce di Draghi istituì, superando le reticenze della Germania e forzando il perimetro del suo mandato, le Outright monetary transactions. Con questo strumento, in seguito mai utilizzato, la Bce avrebbe potenzialmente acquistato titoli pubblici dei Paesi che ne avessero fatto richiesta. L'entrata in gioco di un prestatore dalle risorse illimitate, pronto a fare “tutto ciò che serve per salvare l'euro”, interruppe la crisi di fiducia sui debiti sovrani.
Per i critici dell'euro i danni economici di quella crisi sono da attribuire all'architettura incompleta della moneta unica; per i sostenitori del progetto, invece, le colpe sono da imputare alle vulnerabilità proprie dei Paesi del Sud Europa (più l'Irlanda) bersagliati dalla speculazione.
Con il problema degli spread da tempo sopito dagli interventi della banca centrale e con la vittoria politica del Next Generation Eu, gli argomenti nelle faretre degli euroscettici sembrano essersi molto ridotti. In Italia le ultime uscite dei principali economisti anti-euro, Claudio Borghi e Alberto Bagnai (entrambi eletti in Parlamento con la Lega), raramente hanno a che fare con il loro passato. Lo scorso giugno Borghi ha lanciato il suo ultimo tweet relativo all'uscita dall'euro, un tempo sostenuta a gran voce, reprimendo un suo follower: “Ma siamo qui ancora con il coprifuoco da smontare e pensi che parlare di uscire dall'euro sia attuale? Ma ancora qui siamo?”.
Lo stesso Pisani-Ferry ammette, tuttavia, che l'euro non ha fatto molto per incrementare la concordia fra i diversi Paesi. Con un certo utilitarismo, però, l'economista ritiene che “l'euro può generare indirettamente un senso di comunità; anche se è stata la paura, e non l'amore, ad aver finora impedito ai Paesi di abbandonarlo, in qualche modo il risultato è lo stesso”.
Per alcuni Paesi Ue che ancora non adottano l'euro, però, la lezione del 2011 ha rallentato i progetti di ingresso nell'unione monetaria. Da anni, ad esempio, la Polonia tergiversa sulle tempistiche di ingresso e ancora non ne ha una precisa. Croazia e Bulgaria, le cui monete sono già ancorate all'euro, dovrebbero fare il loro ingresso nell'unione monetaria nel 2024. Eppure, non tutti sono così convinti che sarà un affare.
Un recente servizio dell'Afp aveva raccontato come in Bulgaria buona parte della popolazione tema che, con il cambio di moneta, i prezzi potrebbero aumentare, così come i rischi di crisi finanziarie come avvenuto alla vicina Grecia.
Quanto alle future scelte della Croazia, un monito chiaro è arrivato dall'ex ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, già promotore del referendum anti-austerity tenutosi in Grecia nel 2015. Dopo aver avvertito sul rischio di ingenti flussi di credito estero sul Paese, e sull'instabilità finanziaria che potrebbe derivarne, Varoufakis ha dichiarato: “Restate fuori dall'Eurozona! Dopo tutto, c'è molto da perdere dall'adesione all'euro e molto poco da guadagnare, come dimostrano i casi di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca - gli ex paesi comunisti dell'Ue che, non aderendo all'euro, hanno fatto meglio di tutte le economie periferiche dell'Eurozona”, ha scritto l'ex ministro sul sito di Diem25, il suo movimento politico internazionale.
A prescindere dalle scelte dei Paesi ancora in attesa di entrare nell'euro, pochi ora scommettono sulla sua disgregazione “per cause naturali”. Il progetto politico che sorreggeva questa scommessa, che per alcuni Paesi è stata particolarmente costosa, si è rivelato più saldo di quanto non fosse stato immaginato dai critici. Grazie all'euro, o forse, nonostante l'euro.