Banche: come e chi gestisce il rischio climatico in portafoglio

Un’indagine di Bankitalia ha coinvolto oltre 250 intermediari, di cui 150 localizzati nel settentrione e 100 ripartiti equamente tra centro, sud e isole
Il 13% valuta l’impatto del rischio climatico (fisico e di transizione) nella gestione del proprio portafoglio a fronte dell’80% che punta a farlo in futuro
Gli istituti di credito italiani sono consapevoli dei rischi connessi ai cambiamenti climatici? E quanti ne stanno integrando la gestione all’interno delle proprie strategie aziendali? E nel portafoglio? Sono solo alcune delle domande cui hanno cercato di rispondere Cristina Angelico, Ivan Faiella e Valentina Michelangeli di Banca d’Italia nell’ultima nota di stabilità finanziaria e vigilanza di giugno. Un’indagine che ha coinvolto nel 1° trimestre del 2022 oltre 250 intermediari, di cui 150 localizzati nel settentrione e 100 ripartiti equamente tra centro, sud e isole, che rappresentano circa i tre quarti dei finanziamenti al sistema privato non finanziario.
Il 13% degli intervistati valuta l’impatto del rischio climatico (fisico e di transizione) nella gestione del proprio portafoglio a fronte dell’80% che punta a farlo in futuro. Quanto a coloro che hanno già mosso i primi passi su questo fronte, circa il 25% sono banche con un volume di prestiti verso società non finanziarie superiore ai 1.070 milioni di euro. Diversamente, gli istituti che scontano un maggiore ritardo e che non hanno ancora intrapreso analisi in tal senso sono principalmente banche di credito cooperativo (70%). “L’orizzonte temporale prevalentemente considerato nelle valutazioni sui rischi climatici è di 3-5 anni e solo un numero limitato di banche prende come riferimento un orizzonte superiore ai 5 anni”, precisano i ricercatori. “Questa evidenza conferma che le banche sono innanzitutto orientate a monitorare i rischi, fisici e di transizione, in un orizzonte temporale di breve‑medio periodo, allineato alla struttura delle scadenze dei prestiti verso le società non finanziarie”.
Stress test: il 50% li ha già avviati o intende avviarli
Per quanto riguarda invece gli strumenti utilizzati per valutare i rischi derivanti dai cambiamenti climatici per le istituzioni finanziarie e il sistema finanziario nel suo complesso, circa la metà di coloro che hanno risposto alla domanda (pari a quasi tre quarti del campione) ha già avviato o intende avviare delle analisi di scenario come gli stress test. Una propensione che risulta maggiore anche in questo caso tra le banche con un volume maggiore di prestiti (oltre 1.070 milioni) e che cala invece al 77% tra gli istituti con un volume di prestiti verso società non finanziarie inferiore ai 4.012 milioni e al 55% per quelli con un volume di prestiti compreso tra i 4.012 e i 1.070 milioni.
Chi integra i rischi climatici nell’erogazione del credito
Quasi un quarto del campione ha preferito non rispondere al quesito sulla valutazione del rischio fisico nel processo di erogazione del credito, mentre più del 40% si propone di farlo in futuro. Si tratta anche in questo caso principalmente delle banche con esposizioni maggiori (64%) e di quelle con sede legale al nord (circa il 50%). Quanto alla valutazione del rischio di transizione, invece, solo “una frazione ridotta degli intervistati ha già raccolto informazioni sulle emissioni di gas serra attribuibili alle aziende a cui è stato concesso il credito”, si legge nel rapporto. Ciononostante, più del 90% dei rispondenti (vale a dire quasi il 70% del campione) conta di farlo in futuro e più del 60% intende utilizzare i dati sulle emissioni di gas serra nella gestione del portafoglio delle aziende più grandi a fronte del 40% che guarda sia al portafoglio retail sia alle grandi imprese. Infine, appena quattro banche assicurano di conoscere l’intensità carbonica del proprio portafoglio crediti. Per le altre, quasi il 70% intende ottenere tali informazioni in futuro da un data provider esterno e il 25% desidera avviare un progetto interno.