Dal Say on pay al Say on climate per la lotta al climate change

29.3.2022
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Dopo l’introduzione del Say on pay, l’attenzione degli azionisti è ora spostata in ambito di sostenibilità ambientale. Ecco l’iniziativa del Say on climate
Say on pay: cos'è e come funziona
È stato il Regno Unito il primo paese a livello mondiale a introdurre la pratica del Say on pay nel 2002. L'obiettivo era fornire agli azionisti delle società la possibilità di votare riguardo le pratiche di remunerazione del management, in un contesto in cui le legislazioni vigenti lasciavano alla disclosure la responsabilità di chiudere il divario tra la performance di un'azienda e la retribuzione del team di direzione (tuttavia dimostratasi insufficiente per assolvere tale compito). Per i primi anni, il voto degli azionisti non venne considerato come vincolante per le aziende, ma ebbe puramente una funzione consultiva. Dal 2013 in poi, invece, una seconda fase nell'introduzione della regolamentazione introdusse per le società un voto vincolante da parte degli azionisti (sebbene questi ultimi non possano ancora determinare l'ammontare specifico delle retribuzioni, ma solamente declinare le iniziative a loro proposte). L'esempio del Regno Unito è stato presto seguito anche da altri paesi. Negli Stati Uniti, l'adozione del Say on pay risale al 2007. In Italia, invece, questa è avvenuta nel 2012 con l'introduzione dell'obbligo per le società quotate di pubblicare e sottoporre in assemblea, con cadenza annuale, un report dedicato alla remunerazione di amministratori e key manager secondo quanto descritto nel Testo unico finanza (Tuf).
Dal Say on pay al Say on climate: l'esempio di LGIM
Archiviata la trasparenza sulla remunerazione, l'attenzione degli investitori e degli azionisti si è oggi spostata sulla sostenibilità. Secondo l'iniziativa britannica Say on climate, “il voto degli shareholder sulle tematiche ambientali promosse dalle aziende è un tema cruciale nell'azione contro il cambiamento climatico, dato che le società sono responsabili di almeno il 35% delle emissioni globali di gas serra”. Ora, anche il mondo della gestione del risparmio urge il management delle aziende a prendere in seria considerazione questa pratica. “Nel 2020 abbiamo proposto alle società nei nostri portafogli di adottare la politica del Say on climate, in quanto riteniamo che il cambiamento climatico sia un rischio finanziario fisico per gli investitori” spiega Andrews. “Questo al fine di permettere agli shareholder di dire la propria riguardo ai piani di transizione climatica proposti dal management. Inoltre, supportiamo la richiesta più generale da parte degli investitori riguardo ai piani di azzeramento delle emissioni, ad esempio con un framework di disclosure sull'allineamento net-zero. Nella stagione 2021 delle riunioni generali degli azionisti, come LGIM abbiamo votato contro alcune proposte d'alto profilo a causa di alcuni dubbi sul fatto che i piani di transizione proposti non fossero sufficientemente solidi o credibilmente allineati con il net-zero. Come società, anche LGIM si è impegnata ad azzerare la propria impronta di carbonio entro il 2050 da tutti gli asset in gestione” conclude Andrews. “Per il prossimo anno, aumenteremo le pressioni per quelle società che mancheranno di sottoporre al voto degli azionisti piani di transizione climatica credibili e sufficientemente ambiziosi. Questa azione sottolineerà gli sforzi della Climate Action 100+, una iniziativa promossa dagli investitori che mira a far agire contro il cambiamento climatico le aziende che producono le quote più ingenti di emissioni”.